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Fortini e Pasolini: due
scomodi compagni di strada. Appunti sugli anni Cinquanta
Maurizio d’Adamo
Per
più di dieci
inverni, a ridosso degli anni Cinquanta e Sessanta, due scomodi
intellettuali,
Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini, hanno condiviso un cammino
comune. Tra il
1954 e il 1968 questi straordinari intellettuali hanno potuto
ascoltare, con il
fine udito dei poeti, lo scricchiolio di una società
millenaria che andava in
pezzi e il rumore assordante e caotico della nuova
modernità. Con lo sguardo attento
dei critici hanno provato a comprendere i cambiamenti in atto, a
deplorare il
generale imbarbarimento, a contestare la pacifica idea di progresso.
La tessera
socialista era
per me quasi esclusivamente un documento che
mi autorizzava a parlare con e ai comunisti, i soli che mi
interessassero realmente1.
note
Fortini
e
Pasolini hanno assistito e compianto la fine del mondo in cui erano
nati e
cresciuti e, come Cassandre, hanno preannunciato le imminenti
trasformazioni
senza che nessuno prestasse attenzione alle loro grida, sempre
più rassegnate.
Entrambi si sono opposti a una condizione che pareva inevitabile,
combattendo
con le armi della poesia e della critica, ma sono stati prima
marginalizzati,
poi definitivamente sconfitti. La loro sconfitta è
dimostrata dall’anacronismo
con cui oggi si leggono i loro discorsi e dalla distanza con cui si
vivono le
loro battaglie. La coscienza delle loro affinità li ha fatti
incontrare e li ha
tenuti assieme per gli anni difficili del dopoguerra e in tutte le dure
transazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. Finché lo
richiedeva il contesto
storico e finché era ancora credibile opporsi al capitalismo
dilagante la loro
azione è stata solidale e vicina. Quando, però,
il nemico è diventato più
occulto, meno classificabile e soprattutto quasi onnipresente, hanno
optato per
strade differenti. L’urgenza di parlare, di agire, di far
sentire la propria
voce di dissenso in anni in cui sembrava si dovesse decidere il futuro
giorno
per giorno, metro per metro li ha accomunati per anni. La loro
opposizione,
sempre in trincea, fatta di piccole battaglie quotidiane, ricorda non
poco il
clima della Resistenza di cui entrambi si sentivano figli; non
è casuale che le
loro prime poesie si muovano non di rado su uno sfondo bellico.
Le
differenze
caratteriali e formative, però, con il passare del tempo
diventano di ostacolo
a una completa intesa tra i due; forse solamente nel breve periodo
successivo
gli sconvolgimenti del 1956, nel comune dissenso e biasimo verso il
Partito
Comunista, sembra esserci una completa affinità.
Gli
anni di
«Officina» regalano a entrambi grandi entusiasmi e
non pochi fraintendimenti; il
periodo tra il ‘55 e il ‘59 è uno
specchio fedele dell’instabile equilibrio
instauratosi tra due intellettuali di sinistra, usciti trionfatori
dalla
Resistenza, alle soglie del neocapitalismo.
Per
entrambi
l’esperienza bellica rappresenta un momento di
consapevolezza, di presa di
posizione morale e, conseguentemente, politica, ma i modi e i luoghi
della loro
partecipazione riflettono precocemente caratteri che diverranno, nel
volgere di
una decina di anni, poco conciliabili.
L’8
settembre
1943 segna per entrambi il passaggio a una maggiore consapevolezza
civile. Nel
giorno dell’armistizio, quando Fortini decide di organizzare
una diserzione con
i compagni d’armi, presto sventata, Pasolini rifiuta il
comando di consegnare
le armi ai tedeschi. La loro fuga e le scelte successive incidono
profondamente
sul carattere dei due: Fortini si reca a Zurigo assieme ai rifugiati di
tutt’Europa, Pasolini torna a Casarsa a vivere con i
genitori. Se il poeta
fiorentino decide di imboccare la strada della grande insurrezione,
insieme ai
rifugiati di tutt’Europa prima e prendendo parte alla
Repubblica partigiana
dell’Ossola poi, Pasolini preferisce vivere da spettatore il
movimento di
liberazione assistendo all’arruolamento del fratello nelle
brigate comuniste e
alla sua tragica scomparsa. La fine della guerra comporta
l’adesione del primo al
Partito socialista e del secondo al Partito comunista. Le scelte,
benché
diverse, rispecchiano orientamenti molto affini. Fortini scrive:
Quando
Pasolini decide di fondare
«Officina»,
«rivistina
molto povera e eroica»2,
e chiedere il contributo
di Fortini per collaborare con
«la massima libertà
– specie con scritti di
fiancheggiamento critico e ideologico» lo fa
perché riconosce nel compagno la stessa
propria «urgenza ‘storica’ [...] fuori da
ogni apriorismo».
Pasolini
è
giovane, benché abbia alle spalle una raccolta importante
come La meglio
gioventù, la simpatia
e la
stima di Gianfranco Contini; le sue liriche, tuttavia, riflettono
ancora un
carattere acerbo, in
fieri.
Sulla
soglia degli anni Cinquanta il poeta bolognese ha solo sfiorato la
pesante
eredità marxista e da poco ha avuto occasione di leggere le
parole di Gramsci,
fondamentale guida per gli anni a venire.
Fortini,
di
cinque anni più grande, ha maturato, prima di avvicinarsi a
«Officina», una
grande esperienza in campo critico, letterario e ideologico. Cresciuto
a
Firenze, quando l’ermetismo degli anni ’30 dava i
migliori frutti, vive una
stagione straordinaria a contatto con alcuni dei maggiori intellettuali
. La precoce
conoscenza di Noventa lo
indirizza precocemente lontano dall’orizzonte ermetico
aprendogli nuovi
orizzonti tramite
Al
ritorno da
Zurigo Fortini trova l’occasione di partecipare con
Vittorini, altro comunista
dissidente, al progetto del «Politecnico», cui
partecipa con grande dedizione.
Finita l’esperienza del «Politecnico» la
conoscenza personale di Renato Solmi,
legato a lui dal periodico «Discussioni», gli fa
scoprire prima di molti
compagni la fondamentale traduzione dell’adorniano Minima
moralia,
aprendogli la conoscenza di uno dei massimi
esponenti della scuola di Francoforte.
Quando
nel ’46
vede
All’avvicinarsi
del ‘54, anno del primo incontro tra i due protagonisti,
Fortini ricorda di
essere, dal punto di vista poetico, in una fase di angosciosa3,
stasi
da cui emerge
probabilmente grazie alla conoscenza di Pasolini.
«Officina»
in
cinque anni di pubblicazioni, compresi i numeri nell’edizione
Bompiani, vede congiungersi
due strade, quella di Pasolini e quella di Fortini, che sotto molto
aspetti
erano corse a lungo parallele e che, a causa di decisive deviazioni,
diverranno
nel volgere
di pochi anni totalmente inconciliabili. In modo
paradossale ne La
polemica in versi e in Al di là della speranza,
poemetti usciti
sul numero settimo e ottavo della rivista
a cavallo ’56 e ‘57, si può cogliere la maggiore
vicinanza e, nello stesso tempo, la prima consapevolezza di una
lontananza che
diverrà abissale.
Negli
anni in
cui crolla il mito comunista e in cui ogni potere deve essere
nuovamente verificato
i due scomodi compagni si ritrovano uniti nel tentativo di correggere
gli
sbagli, profeticamente annunciati, in vista di un nuovo socialismo meno
propagandistico
e più attento a proteggere le verità, capace di
accettare critiche e di
rigenerarsi.
I
due poemetti
rivendicano le precedenti esperienze, originali e dissidenti, ma
provano anche
a cercare, uno nell’altro, i reciproci errori:
che
ci si
scambiasse accuse con tanta schiettezza
e durezza appariva
[…] come un anticipo
di fraternità comunista4.
Sulle
pagine della rivista bolognese si attua
uno scontro di sensibilità che vede opporsi Pasolini, capace
di trasfigurare in
un’estetica visione il dramma di una generazione, e Fortini
che cerca di
superare lo sconvolgimento storico per scrutare Al di
là della speranza.
La differenza è tra chi piange sulle Ceneri di
Gramsci
calpestate e chi prova
a ricominciare da capo un discorso nuovo, giungendo fino a proporre,
sulle
pagine di «Ragionamenti», Proposte per
una organizzazione della cultura marxista italiana.
Queste differenze
emergono anche nelle loro poesie: se Pasolini tende a esaltare
l’aspetto
personale del dramma, interiorizzando conflitti visibili
all’esterno e non di
rado trasfigurandoli in estetiche visioni, Fortini si focalizza sui
destini
generali e quando pure descrive qualche esperienza privilegiata la
utilizza come
paradigma della società, o di parte di essa.
I
conflitti
irrisolti di Pasolini lo rendono profondamente negativo e Fortini,
contestando
questo suo carattere, critica: «non è lui che fa i
problemi, ma sono i problemi
a fare lui, lo rammenti»5.
Il poeta fiorentino che,
invece, è alla continua ricerca di una
sintesi,
di hegeliana memoria, trova pace in una nuova
prospettiva in grado di superare le contraddizioni del presente.
Concezioni,
queste, che attirano da parte dell’amico accuse di «misticismo», le quali si uniscono
a quelle di «moralismo»6
dovute
alla continua correzione del pensiero proprio e altrui, come
scrive Pasolini nella Polemica
in versi
e in una lettera di inizio ’57.
L’unica
cosa certa è che, a distanza di qualche
anno, quando ormai le distanze non sono più colmabili
Pasolini ammette
l’importanza di un rapporto che lo ha segnato nel profondo:
tu
esisti in me: esisti tanto da essere l'ideale destinatario di quasi
tutto
quello che scrivo. Spero di esserlo un poco anche io per te7.
Fortini
sembra
rispondergli nel 1965 all’interno del volume Verifica
dei Poteri
rammentando l’importanza che ha avuto in lui lo
scomodo compagno di strada:
Nulla
certo
avrei scritto senza le parole di contraddittori o di avversari ma
soprattutto senza
l’eloquenza comprensibile e i
silenzi dei veri
nemici8.
In
queste parole
emerge quanto questo rapporto e questa conoscenza, in bilico tra
rancore e
sincerità, abbia contribuito in modo
decisivo
alla
maturazione di entrambi i
poeti.
1. F. Fortini, La generazione degli anni difficili, in Id., Un dialogo ininterrotto, Torino, Bollati Boringhieri 2003, p. 33.
2. P. P. Pasolini, Lettera a Franco Fortini, 2 marzo 1955.
3. F. Fortini, Attraverso Pasolini, Milano, Einaudi 1994, p. 56.
4. F. Fortini, Attraverso Pasolini, p. 80.
5. F. Fortini Risposta a Il metodo di lavoro, «Città aperta» , in Id., Attraverso Pasolini, p. 89.
6. P. P. Pasolini Lettera a Franco Fortini, 10 gennaio 1957.
7. P. P. Pasolini Lettera a Franco Fortini, 31 dicembre 1961.
8. F. Fortini Prefazione alla prima edizione, in Id., Verifica dei poteri, Torino, Einaudi 1989 (Gli Struzzi, 364), p. 303.
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