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Un’interpretazione partigiana
del passato.
Elementi autobiografici e strategie compositive in Foglio di via
e altri versi di Franco Fortini
(Saggio pubblicato in "ACME", LX, fasc. I,
gennaio-aprile 2007, pp. 209-47. Ringraziamo la rivista
per aver concesso la riproduzione del testo)
Luca Daino
1. Il vero cognome di Franco Fortini è Lattes:
ebreo da parte di padre, le leggi razziali dell’ottobre del ’38 lo inducono ad
assumere come nom de plume il cognome materno1. Chiamato alle armi nel
luglio del ’41, il poeta ventiquattrenne abbandona definitivamente la sua città
natale, Firenze. L’euforia e l’incertezza dell’armistizio lo sorprendono a
Milano, che a partire da quel momento elegge a sua nuova patria. Il
trasferimento dalla Firenze entre-deux-guerres alla Milano postbellica e
progressista è il sintomo emblematico di una lacerazione biografica. Lo shock
della guerra produce una profonda frattura nell’uomo Fortini, per il quale, da
allora, la terra di origine rappresenterà un rimorso, la consapevolezza
tormentosa di una giovinezza mal spesa; nel ’59 infatti dichiara: «Vent’anni fa,
quando veniva la guerra, mi moriva una prima giovinezza, tanto sbagliata che
nessuna intermittenza del cuore riesce a restituirla alla memoria»2. Non è dunque
un caso che il poeta, in un suo testo, riservi a Firenze l’appellativo di “città
nemica”3.
Quando accenna alla svolta che l’evento bellico
ha provocato all’interno del suo itinerario artistico e biografico, Fortini
tende contemporaneamente a svalutare le sue esperienze precedenti. Nella lunga
intervista rilasciata a Paolo Jachia all’inizio degli anni Novanta,
sull’entusiasta rievocazione del periodo trascorso in Svizzera come rifugiato di
guerra s’affaccia il rimorso di un decennio, quello appunto della giovinezza
fiorentina, che, col senno di poi, a Fortini appare niente meno che «perduto»:
I pochi mesi, i primi cinque del 1944, passati nella città di Zurigo […] furono un turbine di scoperte […]. Mi si rivelava, nel tranquillo caos della lingua germanica, vissuta come remotissima dall’Italia e percorsa da rifugiati, un mondo che nulla aveva a che fare con quel che fino allora avevo conosciuto. Tutto quel che vi lessi (e conservo appunti e schede sugli sbertucciati quaderni di allora) fu il luogo di elaborazione del passato e di preparazione dell’avvenire […]; ma col rimpianto di un decennio perduto.4
Fortini denuncia l’esistenza di un insanabile squarcio, apertosi in coincidenza con il richiamo alle armi, anche all’interno della sua carriera poetica. Se, come sostiene nel dialogo con Franco Loi del ’92, i suoi primi versi sono quelli nati dalle ceneri dei bombardamenti, la sua opera precedente rischia di scivolare nell’oblio:
La guerra, il servizio militare, rappresentò intanto la scoperta di un’Italia che non conoscevo, perché l’Italia che conoscevo era soltanto l’Italia dell’arte. […] Beh, questa è stata davvero un’esperienza straordinaria e i miei versi stampati cominciano allora. Direi che cominciano – anche se naturalmente ne avevo scritti e pubblicati altri – nell’ottobre del ’42, quando mi reco in un ospedale militare di Genova e vedo per la prima volta, su una città, i segni del cannoneggiamento, del bombardamento.5
Il passato fiorentino è così messo tra parentesi o, se rievocato, è tenuto a distanza e stigmatizzato. Già nella prefazione del 1967 a Foglio di via, parlando di sé in terza persona, Fortini esprimeva una profonda perplessità riguardo alla sua formazione prettamente letteraria e a suoi esperimenti poetici giovanili:
Per le vie delle città bombardate e nelle caserme la sua cultura piccolo-borghese si incontrava con l’Italia delle fanterie, col “popolo”. Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke, Gide? Credeva fossero i libri degli altri, dei complici della violenza e dell’oppressione, che nei mesi di Varsavia e Stalingrado scrivevano in frotta sulle riviste dei ministri di Mussolini. E qualche volta, nei suoi versi, le figure non assumevano le facce sublimi e inebetite di certa pittura fascista: «Un sole sui volti profondo…».6
Per il Fortini postbellico Franco Lattes non rappresenta che un passato scomodo, un inservibile e fastidioso alter ego intrappolato in un disimpegno iperletterario e decadente. Il ricorso alla terza persona è la spia linguistica che addita tale frattura prodottasi nel poeta nel corso dei primi anni Quaranta, l’irrimediabile distanza percepita dall’intellettuale uscito dalla guerra nei confronti dell’apprendista letterato fiorentino. Ed è sintomatico che tale atteggiamento distanziante si faccia meno palese e sfumi in più consuete forme impersonali, fino alla riadozione della prima persona, quando oggetto del discorso divengono gli anni bellici: «Nelle poesie del 1944 e 1945 si vede l’incontro con gli scarsi testi della resistenza francese che m’avvenne di tradurre per un foglio socialista di emigrati italiani a Zurigo»7. Agli anni della fanciullezza e dell’adolescenza è riservato lo stesso trattamento al limite della rimozione anche in alcuni passi di quell’eccezionale autobiografia sui generis che è I cani del Sinai: «Solo il passato, la religione della antiche chiese ed armi fiorentine, Dante o Masaccio, commuovevano il ragazzo»8. Nel corso dell’intervista con Loi, Fortini significativamente dichiara:
tutta quella che è stata la mia infanzia e la mia adolescenza, e anche gran parte della mia giovinezza, all’incirca fino al 1943 […] è stata colpita proprio gravemente da una sorta di nebbia. Per cui soprattutto se mi confronto con altri, devo meravigliarmi di quanti pochi ricordi io abbia, ad esempio, dell’età scolastica, dei miei compagni di scuola, degli ambienti nei quali ho passato l’infanzia e l’adolescenza, e se cerco di capire le ragioni di questo, devo dire che si tratta di qualcosa di molto doloroso e negativo. Da una condizione di non riconosciuto, di non accettato, di non integrato, che mi ha segnato di vergogna, o di rimorso, o di negatività quegli anni.
Ero… “ero” […]. Dovrei dire “era”, il ragazzo di una famiglia piccolo borghese, fiorentina, in una città piccolo borghese.9
Tale sforzo distanziante non è tanto il mezzo
attraverso il quale lo scrittore prova a mettere in campo un di più di
oggettività, quanto uno degli espedienti che adotta per dare risalto al decisivo
cambio di rotta intellettuale ed esistenziale impostogli dalla guerra, uno dei
procedimenti con cui cerca di allontanare da sé anni di profonda inquietudine10.
Il biennio seguente l’entrata in vigore delle
leggi razziali è uno dei periodi più amari della vita di Fortini11.
L’angoscia dalla quale si sente pervaso durante questi suoi ultimi anni a
Firenze emerge con franchezza da alcuni passi di una lettera che scrive a Ca’
Zorzi (Giacomo Noventa)12 una «mattina di giovedì» tra il giugno e luglio del 193913.
Dopo aver riferito i giudizi di Romano Bilenchi e Alessandro Bonsanti riguardo
due suoi articoli apparsi su «La Riforma letteraria»14, Lattes confessa all’amico e
maestro le proprie afflizioni, dovute innanzitutto all’emarginazione a cui la
cerchia degli intellettuali fiorentini pareva averlo condannato:
Io, forse, sono il meno adatto a ricevere impressioni, perché ho traversato e traverso un periodo molto brutto. In sostanza, si tratta di umiliazioni, critiche diffuse, impalpabili, un senso di liquidazione nei miei riguardi che mi ossessiona. […] Ma le critiche che mi vengono portate, vanno più in là del letterato; colpiscono tutta la mia persona; e devo confessare che mi amareggiano. […] Sento che non c’è simpatia, per me. So benissimo che io rischio, perché mi espongo molto: perché scrivo: perché stampo: perché non sto zitto. […] E – ancora – soffro. Vogliono proprio farmi diventare amaro. Faccio grandi sforzi per non diventare risentito. Ci sono dei momenti nei quali non so dove sbattere la testa: e allora discorro con le persone più sciocche, tanto per ascoltarmi. Non c’è nessuno che mi dica chi sono, cosa posso essere. La sua conversazione mi sfibra, quella con gli altri mi irrita o mi abbatte; le donne… meglio non parlarne.
[…] Se potessi calmarmi sarebbe dolce dimenticare ogni cosa, stendersi in un prato, passeggiare, girar per musei, o leggere la Comédie humaine. Ma proprio non posso. Mi seppellisco per intere giornate nella mia camera, non fo nulla o annoto dei versi, con una disperazione infrenabile e insulsa. Cà Zorzi, le dico, sottovoce, che ho molta paura per me: proprio paura. Non so dove finisco. Talvolta penso seriamente ad ammazzarmi.15
Al di là del loro carattere forse un po’ giovanilistico, questo affanno e questa inquietudine costituiscono una delle cause che spingono Fortini a chiudere i conti con gli anni della sua formazione e a porre l’accento sulla rottura tra il “prima” e il “dopo” la guerra, attribuendosi una sorta di seconda data di nascita ubicata intorno al 1942; quasi che la rigenerazione intellettuale indotta in lui da quella tragedia gli permettesse di chiudere a doppia mandata la porta d’accesso al lavoro artistico e critico fino ad allora svolto. Del resto, il giovane scrittore in questo senso ha gioco facile: nonostante abbia già pubblicato, soprattutto in ambito fiorentino, un numero non trascurabile di saggi, racconti e poesie, nella Milano postbellica è pressoché uno sconosciuto, e si trova perciò nella condizione, scomoda e vantaggiosa allo stesso tempo, di dover ripartire da zero. La mancanza di un curriculum intellettuale lo condanna sì allo status di esordiente, ma soprattutto gli permette di scegliere su quali aspetti della sua precedente attività mettere l’accento e quali invece lasciar cadere e dissimulare.
2. Il primo nonché fondamentale tentativo
compiuto da Fortini in questa direzione è rappresentato dal suo libro d’esordio,
Foglio di via e altri versi, che secondo Giovanni Raboni costituisce «il
primo importante libro di poesia uscito in Italia nel dopoguerra»16. L’opera, pur
non avendo né la mole né gli intenti dell’autoantologia, è chiamata a
tratteggiare un’immagine complessiva della produzione lirica fortiniana degli
anni 1938-1946; un percorso quasi decennale scandito dalle date di composizione
dei testi, poste in bella evidenza nell’indice del libro.
Il contesto storico, sociale e culturale nel
quale va a collocarsi la prima raccolta di Franco Fortini diverge profondamente
da quello nel quale Franco Lattes si è formato e ha scritto le sue poesie. Il
clima intellettuale sperimentato dal giovane poeta nella seconda metà degli anni
Trenta, nella sua Firenze borghese ad altissima gradazione letteraria – dove le
“battaglie” avvenivano innanzitutto tra intellettuali, e per così dire a colpi
di penna – non è certo quello della Milano bellica e postbellica, dove sono i
colpi di mortaio ad aver lasciato il segno. Come testimonia lo stesso Fortini,
durante una festa dell’alta borghesia fiorentina si poteva persino rivivere
un’atmosfera da cavalieri e dame:
Una sera, a casa di Alberto Carocci, ci fu una grande festa da ballo. Partecipava tutto il fior fiore della intellighenzia fiorentina, pittori, artisti, professori universitari. Mi pare ci fossero Giorgio Pasquali, il pittore Felice Carena (accademico d’Italia), Montale, il pittore Capocchini, Delfini, Landolfi, ma la memoria non mi aiuta. In quell’occasione, nella mia ingenuità, cercai di metter pace fra Noventa e Montale, anche proferendomi, per la serata, quale cavalier servente della compagna di Montale.17
L’assetto del libro viene invece fissato in condizioni ben diverse:
Nella memoria mi è rimasta la tremenda, ardente e squallida estate del 1945 a Milano (squallida ma anche piena di fervore: di fame e di fervore). Ero un ragazzo magrissimo che, nella controra d’agosto, quando la gente abbattuta dal caldo cercava di dormire, saliva le scale del palazzo dei giornali di piazza Cavour (dove era stato una volta «Il Popolo d’Italia») mezzo bruciacchiato dalle bombe inglesi. Nella redazione deserta dell’«Avanti!» copiavo le poesie di Foglio di via.18
Naturalmente, Fortini, nel momento della messa a punto del libro, è consapevole del fatto che le esigenze a cui la poesia è chiamata a rispondere sono radicalmente mutate rispetto al periodo prebellico, tanto più in quegli ambienti milanesi coi quali è entrato strettamente in contatto: oltre all’«Avanti!», «Il Politecnico» e il suo direttore, Elio Vittorini, che farà da intermediario presso Einaudi in vista della pubblicazione di Foglio di via19. Il poeta, in quel 1945, nel suo primo esile libro, non ha lo spazio né l’intenzione di compiere un’articolata retrospettiva della propria poesia giovanile20. È egli stesso, nella premessa alla prima edizione della raccolta, a riconoscere l’esistenza di un contrasto fra il proprio percorso, variegato e contraddittorio, e la necessità di esibirlo con i caratteri della chiarezza e dell’univocità:
L’autore, al momento di raccogliere le sue composizioni, avrebbe voluto vederle collegate naturalmente fra loro da una qualche concordia di motivi o d’espressioni; e le ha riconosciute, invece, come gli anni che le han generate, diverse e divise secondo diversità che erano, prima di tutto, sue proprie; e irresolute, astratte. Tentare di attenuare quelle diversità nella scelta di quei versi ha significato poco più che toglier alcune voci per isolarne altre. Ma incerto ne è stato il criterio. Per ragioni che l’autore s’augura d’aver tempo e cuore di comprendere e risolvere; ma che ora lo gravano, come san fare le biografie.21
È possibile valutare, attraverso un’analisi che si ferma sulla soglia del libro e ne indaga innanzitutto gli equilibri complessivi, cosa significhi per Fortini «tentare di attenuare quelle diversità» togliendo «alcune voci per isolarne altre»; risulterà allora chiaro che la messa a punto del libro si basa su “criteri” tutt’altro che “incerti”.
3. Partiamo dunque dal titolo della raccolta che, pur nella sua sinteticità, allude ad alcuni degli aspetti essenziali della biografia fortiniana a cavallo fra anni Trenta e Quaranta e fornisce subito una prima indicazione circa i criteri con cui il libro è stato allestito. A un primo e più immediato livello, il “foglio di via” addita nei fatti bellici la chiave di volta della genesi del libro: come chiarisce il poeta nella nota introduttiva all’edizione del ’67, «il “foglio di via” voleva essere la “bassa di passaggio” che nei trasferimenti accompagna il soldato isolato»22. Difatti, la lirica eponima, che apre l’ultima sezione della raccolta, ha per tema un viaggio compiuto in solitaria (p. 65):
Dunque nessun cammino per discendere
se non questo del nord dove il sole non tocca
e sono d’acqua i rami degli alberi
[…]
dove una folla tace e gli amici non riconoscono.23
Fortini ricorre di nuovo all’immagine del viaggio in solitaria in un articolo apparso su «Il Politecnico» nel novembre del ’45, in coincidenza cronologica, dunque, con l’allestimento di Foglio di via. In questa occasione tale immagine incarna l’ansia di verità che contraddistinguerebbe la ricerca poetica: «poeti sono coloro che si avventurano fuori delle strade che tutti credono di conoscere, per esplorarne altre, o scorgono nelle vie di tutti una verità e una bellezza importante, dimenticata o non vista mai»24. Il soldato in viaggio, accompagnato solo da un «foglio scritto», si riaffaccerà poi in una lirica del 1949, A metà, che nella terza quartina recita:
a metà della strada – quando il comando è lontano
e il foglio scritto è sbiadito di pioggia
e la battaglia è un’eco e la notte precipita
e chi porta il messaggio ha l’affanno del
disertore.
25
Discostatosi ormai da una concezione egotistica
della poesia, Fortini in entrambi i testi raffigura il poeta-soldato come il
portatore di un messaggio prezioso per sé e per gli altri («il foglio scritto»).
Anche il “foglio di via” che dà il titolo alla raccolta del ’46 parrebbe dunque
alludere ad «una verità e una bellezza importante», di cui il poeta si fa
depositario presso la collettività. Un annuncio che, in quegli anni, dopo
l’attraversamento della tragedia bellica, per Fortini è innanzitutto quello
dell’auspicato e incerto approssimarsi di un futuro compiutamente rinnovato in
senso socialista. Dunque, oltre ad una evidente inflessione bellica, nel titolo
si percepisce anche una più sottile cadenza politica, che sposta ulteriormente
il peso della raccolta sul dopoguerra.
Nel titolo della raccolta sembrerebbe potersi
riconoscere anche un implicito riferimento alla condizione di perfetto
sconosciuto o quasi che il poeta si trova ad affrontare al suo arrivo a Milano:
«Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente
che volteggiava intorno alla stampa e alle riviste d’allora. Cercavo avidamente
di sapere e di capire più che potevo di quel ch’era stata, a Milano, la
Resistenza; e intanto facevo fatica a distinguere facce e idee»26. Questo primo
libro di poesie rappresenta per Fortini un vero e proprio viatico, un “foglio di
via” appunto, in vista del suo ingresso nel rigenerato contesto letterario
milanese e italiano.
Ma nel sintagma del titolo forse lampeggia,
fiocamente, anche l’“anima” fiorentina di Fortini, quella legata ad un’immagine
del poeta come personaggio avvolto nella sua dolorosa solitudine, nel suo
malinconico isolamento sociale27. Si è visto, infatti, che pur presentandosi,
secondo le intenzioni dell’autore, in termini apertamente militarizzati e
partigiani, il “foglio di via” chiama in causa un «soldato isolato». Fortini, in
modo forse inconsapevole, apre così un piccolo spiraglio sull’imprescindibile
alterità dell’intellettuale borghese rispetto a quel mondo popolare di
solidarietà e lotta con cui egli era da poco entrato in contatto.
4. Al livello macrostrutturale l’autore di
Foglio di via dà forma a una calibrata disposizione degli elementi. I testi,
sebbene non ordinati secondo una stringente cronologia, si possono suddividere
in prebellici e bellici: per dirla con Berardinelli, «il libro è spaccato in due
dall’evento della guerra»28.
In linea di massima, le poesie che risentono del clima bellico e resistenziale
vanno a costituire la prima e la terza sezione, rispettivamente Gli Anni
e Altri versi, mentre quelle estranee agli echi della guerra sono
contenute in Elegie, la sezione centrale. Dunque, nel complesso della
raccolta l’itinerario di maturazione compiuto dall’uomo Fortini nel passaggio
dal periodo fiorentino a quello bellico non è presentato con la medesima
linearità con cui invece si è effettivamente svolto: Elegie costituisce
perciò una sorta di analessi all’interno del macrotesto di Foglio di via.
Tale sfasatura tra fabula e intreccio fa sì che la seconda sezione
risulti come incorniciata tra le due contraddistinte dall’influsso della nuova
fase lirica: l’autore in questo modo toglie rilievo, quasi intrappolandoli, ai
testi giovanili ancora fondati su «l’esperienza di una interiorità in dialogo e
lotta col mondo (sentito come grande fantasma di un assoluto)», per mettere
meglio in risalto quelli che già attestano la «coscienza sempre crescente d’una
tendenziale verifica dell’individuo nella storia collettiva»29.
Un intervento di Giovanni Raboni testimonia come l’operazione fortiniana tesa a
mettere l’accento sulle esperienze belliche a scapito di quelle degli anni
precedenti abbia colto nel segno: il critico e poeta milanese suggerisce come
sia «addirittura superfluo sottolineare come e quanto a fondo giochino […] i
temi legati al sentimento e all’etica resistenziali. La più rapida delle scorse
a Foglio di via […] permette di individuare la centralità e la forza di
irraggiamento dei testi più espliciti in questo senso […]. Non si tratta solo,
insisto, di una presenza diretta, ma di una presenza condizionante, capace di
dare una sorta di viraggio all’insieme della raccolta»30.
Ma Foglio di via, come visto, è
innanzitutto il frutto della contrapposizione tra la matura coscienza storica e
collettiva acquisita da Fortini durante la guerra e il disimpegnato solipsismo
precedente: contrasto palese già nei titoli delle prime due sezioni del libro,
che fanno cozzare l’uno contro l’altro il tempo concreto della Storia, “gli
anni”, e il tempo “elegiaco”, fondamentalmente astorico, della contemplazione.
Come ha affermato Luca Lenzini: «Due linguaggi, due tradizioni coabitano […] in
Foglio di via: quello dantesco dell’esule, che tende all’allegoria e
risuona di echi biblici (“morte seconda”), e quello della soggettività, del
ricordo e dell’idillio»31.
Al livello stilistico, quindi, non sorprende trovare in una delle liriche chiave
della seconda sezione, Di Maiano (p. 49), un sintagma come «nemica
città», con elegante anticipazione dell’aggettivo, per poi imbattersi di nuovo
nel medesimo binomio, ripetuto cinque volte, ma con ordine degli elementi
normalizzato, nel testo d’apertura di Gli anni, La città nemica
(p. 11).
L’ultima parte del libro, Altri versi,
testimonia come sia andata maturando una sorta di ricomposizione tra le due
opposte condotte poetiche. In questa fase va in qualche modo sfumandosi
l’irriducibile divergenza tra la narcisistica affabulazione del singolo e il
concreto dialogo con la realtà – anche se è certamente questo secondo il polo
verso cui Fortini ormai tende. Lasciandosi alle spalle sia la raffinata
effusione lirica di Elegie, sia i più accesi accenti populisti di alcuni
testi di Gli anni, le poesie dell’ultima sezione parrebbero risolvere la
dialettica interno-esterno, individualità-mondo, realtà (con la sua
crudezza)-poesia (con le sue raffinate convenzioni), racchiudendo in sé sia la
dimensione individualistica che quella politica32.
Ma più che tale possibile equilibrio, qui
interessa sondare il conflitto che si svolge tra le poetiche che
contraddistinguono le prime due sezioni. Nella messa a punto del libro
l’intenzione del poeta parrebbe duplice. Da un lato, inserendo nella sezione
d’apertura, Gli anni, testi quasi esclusivamente datati tra il 1942 e il
1944, mette subito in risalto la componente “resistenziale” della propria
poesia e il rinnovamento di questa alla luce delle nuove istanze dettate dalla
storia. L’inclusione, in questa sezione, di testi di data più alta (Se
sperando, 1938, p. 17; La città nemica, 1939, p. 11; Oscuramento,
1940, p. 15) parrebbe invece voler suggerire che tale filone si trovava già
in nuce in alcuni esemplari della produzione prebellica. È questo l’aspetto
evidenziato da Italo Calvino nella sua recensione al primo libro poetico
fortiniano: «Franco Fortini, il giovane poeta fiorentino di cui Einaudi ci
presenta il folto quaderno Foglio di via, è nell’interezza della sua
opera poeta della resistenza. Poeta della resistenza fin dalle più antiche
liriche della raccolta»33.
Fortini, insomma, avrebbe precocemente saputo tradurre i fermenti bellici in
esiti poetici, perché qualcosa in lui già si muoveva nella direzione verso cui
il tumulto delle esperienze lo avrebbe poi condotto. Il poeta parrebbe provare a
suggerircelo, tra l’altro, assegnando al 1939 La città nemica (p. 11), il
testo di impronta già quasi neorealistica che apre la prima sezione del libro.
Eccone le prime tre strofe:
Quando ripeto le strade
che mi videro confidente;
strade e mura della città nemica;
e il sole si distrugge
lungo le torri della città nemica
verso le notti d’ansia;
quando nei volti vili della città nemica
leggo la morte seconda,
e tutto, anche ricordare, è invano.
Basti segnalare le numerose anafore e la spoglia
struttura su cui s’impianta la sintassi; il quasi-ritornello che, già a partire
dal titolo, scandisce l’andamento della poesia; la sobrietà del lessico,
testimoniata dal prevalere di verbi e concretissimi sostantivi, e dalla scarsità
degli aggettivi (oltre al reiterato “nemica”, in tutto il testo se ne contano
solo altri due). È poi corretto individuare nel testo, come ha fatto Giuseppe
Nava, una chiara predilezione per Dante («notte d’ansia», «volti vili», «morte
seconda») e in particolare per il canto di Farinata («arca di sasso»): scegliere
il Dante della Commedia significava «rompere anche con tutta la
tradizione simbolista, che in fondo stava ancora alla base dell’esperienza
ermetica»34.
Solo nel ’59, nell’autoantologia fortiniana intitolata Poesia ed errore,
tale testo verrà più adeguatamente collocato nel 1941, cioè in un momento nel
quale una così decisa presa di posizione antiermetica e già aspramente tesa al
realismo appare più credibile35.
Insomma, La città nemica, sia per la strategica posizione d’apertura che
occupa, sia soprattutto per la falsa data assegnatale, da testo già sulla soglia
dell’esperienza bellica quale è, viene presentato come lirica dei tempi
fiorentini36.
Dall’altro lato, in Foglio di via parrebbe
trovare spazio – seppure solo in seconda battuta – anche la
poetica oltranzisticamente soggettivista di Elegie, innanzitutto
perché possa meglio emergerne, nel contrasto con le liriche più
impegnate, l’avvenuto superamento. Superamento che già Romagnoli segnalava nella
sua tempestiva recensione alla raccolta: «man mano che si avanza negli anni, al
’44 e al ’45, anni in cui gli ambienti poetici si moltiplicano e sembra quasi
che la materia stessa imponga un allontanamento da alcune involuzioni
sintattiche e libertà di lessico, il periodo melodico si allarga, le parole
tornano vere e concrete. Un fenomeno che già riscontrammo in Gatto e Quasimodo,
anch’essi chiarificatisi dinanzi e nella guerra»37.
La prima fase della parabola fortiniana risulterebbe così assimilabile a uno dei
più consueti itinerari compiuti dai poeti italiani a cavallo fra anni Trenta e
Quaranta. Itinerario il cui punto di partenza è, a grandi linee, la lirica di
stampo elegiaco e autoreferenziale, secondo la formula nietzscheana della
“malinconia all’ombra del potere”, e quello d’approdo la poesia engagée
nata dalla guerra e dalla Resistenza38.
Allinearsi su tale percorso per Fortini significa poter mettere da parte, senza
ulteriori ripensamenti e analisi, un passato inquieto e mai risolto appieno.
Egli stesso, riferendosi al proprio percorso poetico così come lo testimonia
Foglio di via, significativamente ha affermato: «Sarei contento che quei
versi potessero ancora commuovere o interessare. Ma altro merita attenzione: che
vi si rifletta un’esperienza di molti»39.
5. Fortini, dunque, in Foglio di via non
vuole semplicemente mettere in speciale risalto le sue liriche belliche a
scapito delle precedenti; ma tenta anche di fornire una determinata – o meglio:
una pre-determinata – immagine, non necessariamente corrispondente alla realtà,
del suo lavoro giovanile.
Il poeta accoglie il lettore sulla soglia del
libro con E questo è il sonno, edera nera, nostra (p. 7), forse il
suo testo meno distante dai procedimenti della lirica postsimbolista; tanto è
vero che Mengaldo, nell’introduzione all’antologia fortiniana del ’74, ha
affermato: «quanto egli debba inizialmente alla grammatica degli ermetici lo
dice a sufficienza la prima lirica del presente volume, E questo è il sonno…»40.
Si tratta dell’unica poesia del libro non provvista di data e titolo, o meglio,
con titolo estratto dal primo verso
41.
Il testo, stampato in corsivo e svincolato dalle sezioni in cui la raccolta è
divisa, si situa in una sorta di limbo, offrendosi quale porta d’accesso alle
liriche seguenti, loro antefatto paradigmatico, nonché – trattandosi del prologo
di un libro d’esordio – quale allusiva definizione della più precoce fase
poetica dell’autore. Ecco il testo:
E questo è il sonno, edera nera, nostra
corona: presto saremo beati
in una madre inesistente, schiuse
nel buio le labbra sfinite, sepolti.
E quel che odi poi, non sai se ascolti
da vie di neve in fuga un canto o un vento,
o è in te e dilaga e parla la sorgente
cupa tua, l’onda vaga tua del niente.
A sottolineare ulteriormente la rilevanza e lo
specifico carattere introduttivo di questo testo interviene il disegno, di mano
di Fortini, posto in copertina nell’edizione del 1946, che ritrae un giovane
addormentato (con tutta probabilità il poeta stesso): «Il disegno sulla
copertina l’avevo fatto io. Voleva rappresentare il dormiente che s’intravvede
nella prima poesia»
42.
Come vedremo, quel sonno è la metafora della concezione della poesia e del mondo
che, secondo Franco Fortini, sono appartenute a Franco Lattes.
La prima strofa di E questo è il sonno…,
una quartina, è impostata su un ritmo lento e scandito (quasi un accento per
ogni parola piena) che pare invitare a una lettura sottovoce, adeguato
sottofondo al sonno a cui il poeta accenna. I tre enjambements (dei quali
il primo, che separa sostantivo e aggettivo, di grande evidenza), piuttosto che
spezzare l’andamento dei versi, fanno sì che il corso del pensiero si
concretizzi in un’unica magmatica entità – quasi l’esatto contrario del
verso-frase che Fortini, nel dopoguerra, deriverà da Brecht (e dalla Bibbia).
Inseriti in tale calibratissimo flusso, guadagnano risalto sia gli accostamenti
analogici («sonno, edera nera, nostra | corona»), sia il raffinato uso,
ai vv. 3-4, della sintassi nominale, imperniata su tre participi passati con
funzione di aggettivi e tra loro allitteranti.
Il primo dei distici, legato alla quartina da una
rima baciata («sepOLTI-ascOLTI»), è percorso da un ritmo rotto e rapido
tutto giocato su brevi parole: i monosillabi e le sinalefi danno forma a una
martellata cadenza giambica, che simula la melodia a cui i versi alludono: «non
sai se ascolti | da vie di neve in fuga un canto o un vento». Nel suo
insieme il distico costituisce un sottile anacoluto, quasi una raffigurazione
per via sintattica della vaga e ineffabile percezione a cui la lettera del testo
fa riferimento. Infine, il distico di chiusura – collegato al precedente da una
quasi-rima («vENTo-sorgENTe-niENTe», vv. 6-7-8) – si caratterizza per l’elegante
iterazione dell’anastrofe («la sorgente | cupa tua, l’onda vaga tua») e,
nell’ultimo verso, per una insistita scansione trocaica.
La congiunzione coordinativa “e” posta in
apertura di due delle tre strofe (la terza è introdotta dalla disgiuntiva “o”),
le preziose inversioni, gli accostamenti analogici, il prevalere
dell’endecasillabo43.
il frequente ricorso al fonosimbolismo (non senza l’affermarsi, a tratti, del
suono a scapito senso), nonché l’atmosfera enigmaticamente allusiva che
permea da cima a fondo il testo, parrebbero far rientrare E questo è il sonno…
nell’orizzonte della lirica fiorentina prebellica: non tanto in quello della
poesia metaforicamente spericolata del Luzi di Avvento notturno e degli
ermetici più conseguenti, quanto in quello del cosiddetto “ermetismo debole”44.
E questo è il sonno…, inoltre, veicola
un’implicita dichiarazione di poetica, come del resto non è difficile aspettarsi
da una lirica che funge da premessa, non solo della raccolta, ma dell’intera
carriera dell’autore. Nei tre tempi del testo viene indagato il sorgere
dell’ispirazione lirica. Il «canto» come il «sonno»: s’instaura una relazione
tra la perdita di sé causata dal sonno e il rapimento dei sensi che
contraddistinguerebbe l’impulso poetico. Dapprima, nella quartina d’apertura,
interviene il profondo smarrimento del sentire razionale, raffigurato come
condizione paragonabile a quella della morte: «schiuse | nel buio le labbra
sfinite, sepolti»; s’affaccia poi un’incerta percezione, già
musicale: «E quel che odi poi non sai se ascolti | da vie di neve in fuga un
canto o un vento»; e infine, nell’ultimo distico, avviene la scoperta della
reale sorgente del canto, la più segreta interiorità dell’individuo: «o è in
te e dilaga e parla la sorgente | cupa tua, l’onda vaga tua». L’autoritratto
del giovane dormiente posto in copertina acquista dunque il senso di una
dichiarazione di poetica nei termini in cui illustra il primo stadio
dell’ispirazione artistica.
Nella seconda breve strofa, la vaghezza
percettiva, rimarcata dall’anacoluto, indica quale deve essere l’attributo
essenziale del canto: la carica polisemantica. Il poeta suggerisce poi
l’esistenza di un’affinità tra la propria voce e quella sublime della natura,
incarnata per sineddoche nel vento («non sai se ascolti | da vie di neve in
fuga un canto o un vento»)45. Il distico di chiusura, non a caso, si imposta sul rincorrersi scopertamente
musicale delle vocali e delle consonanti, come a voler creare l’impressione di
un’eco: «è in TE e diLAgA e pArLA LA sorgENTE | cUpA TUA, l’onda vAgA TUA del
niENTE». I moti d’ispirazione della poesia, voce interiore non dominabile,
nascono quindi da una segreta «sorgente» che «dilaga» nel poeta come un’«onda»
sonora inafferrabile e seducente («vaga»). È forte poi l’insistenza
sull’aggettivo possessivo di seconda persona singolare, che rimbalza da una
parola all’altra, anche per il ricorrersi delle occlusive dentali sorde: «la
sorgenTe | cupa Tua, l’onda vaga Tua del nienTe». Dietro a questo “tu” non
si nasconde nessun destinatario né fittizio né reale, ma solo il poeta che parla
e riflette con se stesso: la poesia si chiama fuori dalla collettività,
presentandosi come l’espressione cifrata e musicale di un io lirico che indaga i
nodi segreti della propria realtà interiore e, nel caso specifico,
dell’ispirazione artistica. Con questo accostamento tra creatività poetica e
smarrimento della luce razionale nel buio dell’interiorità umana ci troviamo,
anche dal punto di vista della concezione della poesia, nei dintorni
dell’ermetismo. E la rima baciata del distico finale, «sorgENTE | niENTE»,
parrebbe suggerire che ciò che qui è stato indicato come il primum della
poesia (la “cupa e vana sorgente”) si trova in strettissima e minacciosa
relazione con il nulla, col nonsenso; ma proprio questa, sembrerebbe voler qui
dire Fortini, è la forza del poeta: lambire il baratro del non senso per
riuscirne con un di più di significato.
Fortini attribuirà a E questo è il sonno…
il compito di introdurre alcune delle sue più importanti antologie
liriche: quella curata da Mengaldo nel 197446
e quelle d’autore del 197847 e del 199048.
Sistemando sulla soglia di tali raccolte un testo per alcuni versi affine alla
lirica postsimbolista, Fortini sembra voler presentare i propri esordi come ben
allineati con una delle poetiche di punta nell’Italia degli anni Trenta49.
Tale testo, con l’idea di poesia che racchiude, segnala insomma il precoce
aggiornamento del poeta sugli stilemi più tipici della modernità letteraria tra
le due guerre e, a confronto con le liriche di Gli Anni che la seguono
immediatamente, provvede a dimostrare come ogni accento ermetizzante venga poi
rifiutato in nome delle urgenze sorte dalla tragedia bellica. Il “foglio di via”
– parrebbe dunque dirci il poeta – è anche il viatico perché egli possa compiere
il percorso di emancipazione dalle proprie radici ermetizzanti, perché il
giovane del disegno di copertina esca dal suo sonno per immergersi nella realtà,
e finalmente abbandoni la sua elitaria concezione della poesia per acquistarne
una in grado di misurarsi concretamente col mondo che lo circonda.
Si paragoni E questo è il sonno… con Il
coro dell’ultimo atto (p. 93), la lirica che sta al capo opposto della
raccolta e perciò è in qualche modo chiamata a rappresentare il punto d’arrivo
dell’itinerario poetico fortiniano in Foglio di via. Con la sua
concretezza e il suo andamento energicamente scandito, tale testo, che non a
caso si apre su un «Dunque», sembra quasi fare il verso all’ineffabile lirica
assunta ad incipit del libro. Eccone la seconda strofa:
Ognuno di noi conoscerà una cosa vera.
E voi tornerete alle case con una pietra
sul cuore come nel pugno una pietra vera.
È da attribuire al valore strategico di E
questo è il sonno… (oltre che a testi come Cinque elegie brevi – non
a caso posto in apertura della seconda sezione della raccolta –, Senza
Preghiera e Dedicando poesie future)50 la responsabilità del diffondersi di una specie di vulgata, un’interpretazione
non del tutto fuori bersaglio, ma parziale, degli esordi fortiniani: ad un
giovane poeta precocemente influenzato dall’ermetismo sarebbe poi seguito – in
parte a causa dell’insegnamento di Noventa, ma soprattutto per via
dell’esperienza bellica – un più maturo autore, ostile alla lirica dei suoi
colleghi fiorentini51.
Ad indicare come una simile proposta interpretativa sia stata fomentata
dall’autore stesso viene in soccorso la data di composizione di E questo è il
sonno…, che solo tredici anni dopo la pubblicazione di Foglio di via
scopriremo essere il 194652.
Ciò significa che Fortini scrive il testo forse più ermetizzante della propria
carriera poetica dopo la guerra, quando cioè è ormai scomparsa dai suoi versi
ogni tentazione simbolista. Non è dunque un caso che E questo è il sonno
sia l’unica poesia non datata del libro.
Del resto è in un articolo fortiniano della fine
del ’45 – e non in uno prebellico –, Questa terra che non dimentica, che
incontriamo le immagini della donna-madre e del sonno-morte presenti in E
questo è il sonno…: «la donna che desideriamo ma non riconosciamo compagna è
sempre una madre terribile e mortale, e a lei, indietro, capovolti nel
buio, verso la morte del non essere, ci respinge un’immagine»53.
Ma il giornalista militante, al contrario del poeta, si ribella a tale stasi
esistenziale, a tale estraniazione dalla concreta realtà (intimamente legate,
come visto, alla sua giovinezza): «per gli schiavi di quella immagine materna,
l’azione è sempre una dolente violenza strappata all’amore. Su quell’immagine di
morte i padroni, i viceré, i baroni, i cardinali hanno coltivato queste secolari
stanchezze»; e, continua, solo «se ci riesca di svellere le immagini d’amori
impossibili, le mani delle odalische, delle vergini-prostitute che ci abitano,
inafferrabili, per sostituirle con figure umane nostre eguali, la morte
mediterranea perderà la sua seduzione»54. In E questo è il sonno…, invece, ogni atteggiamento di sdegno e di
ribellione nei confronti di tale languido cupio dissolvi è del tutto
assente; e anzi, in coerenza con il suo ruolo di testo emblematico della fase
giovanile, raffigura quell’inerzia languida e decadente come condizione ancora
ben viva, alla base della creatività artistica.
La lirica d’apertura di Foglio di via
parrebbe insomma essere una sorta di falso d’autore costruito ad hoc,
elemento fondante dell’autoritratto al quale Fortini dà forma nel suo primo
libro: ci troviamo così di fronte non solo un intellettuale in grado di mettersi
al passo coi tempi nel corso degli anni Quaranta, ma anche un poeta già
allineato in gioventù con quella che costituiva l’avanguardia letteraria degli
anni Trenta.
Eppure, anche un rapido sguardo alla parte più
consistente della produzione fortiniana prebellica, per lo più rimasta inedita o
pubblicata solo in rivista, dimostrerebbe come il giovane Franco Lattes non
abbia fatto proprie le innovazioni di stile e contenuto affermatesi nel corso
degli anni Venti e Trenta, innestando piuttosto il suo lavoro sulla scia di più
vecchi maestri come d’Annunzio, Pascoli e Carducci55
– ed è proprio tale ritardo che Fortini sembrerebbe voler dissimulare.
6. Ma la parziale inesattezza delle
interpretazioni che hanno giudicato ermetiche le prime prove fortiniane emerge
anche limitando il campo della verifica al libro del ’46. Non è difficile
constatare come, a loro volta, le liriche prebelliche lì presenti – fatta
eccezione, naturalmente, per E questo è il sonno... e Cinque elegie
brevi – non si mostrano profondamente debitrici alla poetica postsimbolista.
Tali testi – quasi tutti raccolti nella seconda sezione, Elegie –
esprimono un desiderio di chiarezza che per lo più sottrae il poeta alla
tentazione di eleggere a motivo del canto un inaccessibile magma spirituale. Vi
si incontra una tendenza alla discorsività che libera il tessuto testuale dagli
accostamenti analogici rari ed arbitrari56.
Come ha spiegato Gianni Scalia, il giovane Fortini in queste poesie sceglie «la
purezza come esercizio di rigore non di fatuo trionfo intimistico, il soliloquio
non come afasia e incomunicatività ma come interiore problema, la “difficoltà”
non lessicale ma intellettuale; preferisce un raffinato, dolce “studio” al
cursus emblematico, alla canorità oscura»57.
Anche Pasquale Sabbatino, che ha indagato le figure di condensazione presenti in
Foglio di via, e in particolare le locuzioni prepositive analogiche, nota
come, di fatto, anche il più frequente di tali accorgimenti, quello col “di”
preposizionale, «accosta diverse zone lessicali, sempre senza oltrepassare il
limite di guardia di un classicismo letterario»58.
Le liriche della seconda sezione di Foglio di via non subiscono nemmeno
quell’eclissi dell’io poetante – inteso in senso concreto, come soggetto
psicologico, morale e intellettuale – che invece è tipica della lirica
postsimbolista (e caratterizza anche E questo è il sonno…)59.
Un esempio emblematico della condotta poetica che
caratterizza Elegie è rintracciabile in Sulla via di Foligno (p.
55), il testo più breve della sezione:
Contento di me stesso: e un’altra volta
visito i campi, il gioco antico e tristo
dell’erba nuova, ripeto per nome
e le cose vicine e le lontane,
chiuse per sempre, gesti che ritornano
come gracili danze d’orologi.
(Grida, grida una voce
altissima il suo nome).
Le liriche di Elegie sono sì attraversate da un’energica tensione estetizzante, nonché da un certo gusto per le atmosfere vaghe e sfuggenti; ma tali testi, come del resto dimostra Sulla via di Foligno, più che una consonanza con la produzione poetica dei contemporanei, denunciano una qualche adiacenza con la tradizione letteraria prenovecentesca, caratterizzate come sono dal decoro e dalla compostezza formale, oltre che da un linguaggio decisamente connotato in senso letterario; un linguaggio che a tratti sfiora la maniera60. Lenzini ha definito Elegie la sezione di Foglio di via che «oltre ad essere istituzionalmente delegata allo svolgimento di istanze legate alla soggettività, è essa stessa la più tradizionale, quella modulata in senso più “classicistico”»61. Se è vero, infatti, che queste liriche sono già contraddistinte da un invasivo io empirico non idealizzato (ma non ancora delegittimato ed emarginato), dal lato della forma non vi troviamo ancora «la liberazione del talento individuale, la conquista del diritto a scrivere senza rispettare le regole prestabilite e a intendere lo stile come espressione anarchica di sé»62. Se dunque le radici dei testi di Elegie affondano ben dentro il Romanticismo, quando cioè la poesia inizia a far propri i modi del monologo solipsistico, quelle medesime radici non traggono ancora proficuo alimento dalla seconda metamorfosi fondante la modernità letteraria, quella dell’«espressivismo» stilistico e della regressione alla vita psichica preconscia, compiutasi in Italia a partire dagli anni Dieci del Novecento63. Non sarà quindi un caso che ancora Lenzini abbia individuato una vigorosa influenza del classico-romantico Leopardi proprio in una delle liriche di Elegie, Di Porto Civitanova (pp. 47-48), il cui attacco significativamente recita:
Qui mi condusse il lungo
vaneggiare degli anni
che ora lieto ora triste e sempre invano
come fanciullo mi volgeva.64
7. Nel momento della messa a punto della raccolta, Fortini non risparmia a questa seconda parte classicheggiante e disimpegnata di Foglio di via un’iniezione di sarcasmo, un sottile sberleffo. Il poeta esprime il proprio mordace scetticismo nei confronti delle sue liriche non belliche, per mezzo di un testo a cui assegna – come già a E questo è il sonno… – una collocazione di speciale visibilità. Si tratta dell’epigrafe, a sua volta stampata in corsivo, che funge da premessa alla parte centrale del libro, prendendo a prestito tre versi di Wystan H. Auden:
By
silted
harbours,
derelicts
works,
in
strangled
orchards,
and
the
silent
comb
where
dogs
have
worried
or
a
bird
was
shot.65
Il poemetto citato appartiene alla prima fase poetica dell’autore inglese, quella contraddistinta dall’impegno politico-sociale nel segno di Freud e Marx; il che stride col carattere astratto ed egotistico della sezione di Foglio di via che è chiamato a introdurre – sezione che sin dal titolo, Elegie, palesa l’atmosfera sfumata e decadente che la caratterizza66. Nella premessa alla nuova edizione della raccolta proprio Auden sarà citato da Fortini tra quegli «sconosciuti fratelli maggiori» a cui, a posteriori, si scopre affine per essere stato come loro profondamente segnato dall’esperienza della lotta antifascista67:
quando si cominciò a intuire l’ampiezza della catastrofe europea e a sospettare che non si sarebbe chiusa con gli armistizi, si ebbe – almeno per un tempo – una immagine che parve riassumere, come un Comitato di Liberazione, le verità di allora: quella di «uomo» e di «vita», opposta all’antiumano e alla morte. […]
Quelle figure e le vie del loro superamento erano state scritte, o proprio in quei giorni venivano scritte, da Joszef, Machado, Brecht, Hernandez, Auden, Radnotj, Vallejo. Senza saperlo, l’autore comunicava con una folla di sconosciuti fratelli maggiori.68.
È chiaro, dunque, che la scelta di far introdurre
a una poesia di Auden la sezione meno impegnata del libro nasconde una sottile
intenzione autoironica.
La lirica del poeta inglese è indirizzata alla
Morte, affinché compia la sua vendetta sul degenerato mondo presente; una
vendetta che Auden immagina socialmente connotata, una vera e propria rivincita
delle classi dominate sulle dominanti:
Consider this and in our time
as the hawk sees it or the
helmeted airman
the clouds rift suddenly –
look there
at cigarette-end smouldering
on a border
at first garden party of the
year.
Pass on, admire the view of
the massif
through plate-glass windows of
the Sport Hotel;
join there the insufficient
units
dangerous, easy, in furs, in
uniform,
and constellated at reserved
tables.69
All’inizio della seconda strofa Auden lascia intendere che il “tu” a cui la poesia si rivolge è la morte:
…supreme Antagonist,
more powerful than the great
northern whale,
ancient and sorry at life’s
limiting defect
[...].
You talk to your admirers
every day
by silted harbours, derelict
works,
in strangled orchards, and
silent comb
where dogs have worried or a
bird was shot.70
Gli ultimi tre versi citati sono quelli scelti da Fortini per introdurre Elegie. La serie dei complementi («by… in… where…») fissano i luoghi da cui la morte – «supreme Antagonist» – si rivolge ai suoi «admirers»: «You talk to your admirers every day». Fortini, invece, tagliando questo verso, affida la funzione di soggetto alle poesie che seguono immediatamente l’epigrafe: saranno loro infatti a prendere la parola al posto della morte. Le liriche di Elegie, così avvinte ai canoni della poesia aulica e autoreferenziale, vengono cioè presentate come dei fantasmi che hanno già vissuto il loro tempo. Composte ai tempi del Fascismo e del Nazismo, si affacciano sul presente da un luogo remoto e terribile: «By silted harbours, derelicts works», «in strangled orchards». Ma il privilegiato rifugio dei tempi fiorentini – su cui queste poesie si soffermano diffusamente – non permetteva di vedere la tragedia che incombeva tutt’intorno: «silent comb | where dogs have worried or a bird was shot»; come Fortini stesso ha affermato: «di quanto in quel tempo – dall’autunno del 1939 al luglio del 1941 – si consumava nell’Europa centrale non sapevo nulla»71.
8. La seconda parte della raccolta è fornita
anche di un significativo explicit, il testo intitolato vice veris
(1945, p. 61), unica poesia della sezione posteriore al 1943. Stampata in
corsivo come gli altri due testi della raccolta dotati di un particolare valore
segnaletico (E questo è il sonno… e l’epigrafe di Auden), vice veris
è il prodotto di una visione del mondo già maturata sotto i colpi della
guerra. Siamo dunque di fronte a un’incursione del dopo nel prima,
quasi che il poeta voglia segnalare, con la massima evidenza, già all’interno di
Elegie, il confine estremo e il definitivo esaurirsi della sua produzione
poetica estranea all’evento bellico.
La lirica contrappone a un rigido inverno
l’approssimarsi di una dolce primavera. Il titolo vice veris non ha la
normale maiuscola, dal momento che, con tutta probabilità, si tratta di un
sintagma estrapolato dal primo verso di un’ode oraziana, a sua volta
caratterizzato dalla contrapposizione primavera-inverno: Solvitur acris hiems
grata vice veris et Favoni (Orazio, Carmina I. 4. 1)72. La poesia si apre sul presente, con un verso che sembra fare riferimento alla
Liberazione della primavera del ’45: «Mai una primavera come questa | è
venuta sul mondo». Poi, ai vv. 8-14, il poeta si volge al passato,
rievocando – ma tenendo, nel contempo, a distanza – un’enigmatica «immagine
d’amore» e, con essa, l’intero periodo precedente la guerra, raffigurato come un
inverno di torpore e quasi morte:
Ora conosco
perché mai dagli inverni ove a fatica
si levò questo esistere mio vivo
m’è rimasto quel nome, che mi scrivo
su quest’aria d’aprile, o sola antica
e perduta e oltre il pianto sempre cara
immagine d’amore mia compagna.
Terminata la guerra, Fortini comprende di essere finalmente uscito dal suo “letargo invernale”, dal suo sonno giovanile; solo «ora», cioè nel momento in cui scrive, nella primavera del 1945, la sua vita “fiorisce” e la sua parabola esistenziale gli si presenta finalmente giunta ad un’effettiva maturità: «Certo è un giorno | da molto tempo a me promesso questo | […] e quanta | calma giustizia nel pensiero è in fiore» (vv. 2-3 e 5-6). Del passato, invece, rimane ormai solo il vago ricordo legato ad una figura d’amore «antica e perduta»73. Dunque, se ai versi introduttivi di Auden spettava il compito di mettere in chiaro l’atteggiamento polemico del Fortini postbellico nei confronti dei propri anni giovanili, la poesia conclusiva di questa seconda sezione di Foglio di via è chiamata ad additare la lontananza ormai incolmabile di quel passato.
9. Torniamo ora a concentrare l’attenzione sulle
altre liriche presenti in Elegie. Al fianco di testi appartenenti
stricto sensu alla fase fiorentina ne troviamo altri che cronologicamente si
ubicano a cavallo tra gli anni prebellici e quelli bellici (Fortini inizia il
servizio militare nel luglio del ’41): tre delle Cinque elegie brevi che
aprono la sezione sono datate 1939, ma le altre due risalgono al 1941, e delle
restanti nove liriche che compongono Elegie solo due precedono certamente
la chiamata alle armi (Di Maiano, 1938, pp. 49-50; Di Porto Civitanova,
1939, p. 47-48). Inoltre l’unica poesia di questa seconda parte del libro a
venire pubblicata prima della guerra è proprio Cinque elegie brevi74. Dal punto di vista cronologico, quindi, il legame di questi testi con la fase
fiorentina non è sempre stringente; si ha insomma un’ulteriore conferma del
fatto che in Foglio di via Fortini non intende fornire una cospicua
testimonianza della sua poesia giovanile. È comunque corretto definire
“prebellici” i testi di Elegie (fatta salva l’eccezione rappresentata da
vice veris) nei termini in cui tali liriche costituiscono quella
ben delimitata zona della produzione fortiniana che non denuncia ancora
l’assimilazione degli stimoli provenienti dall’esperienza della guerra e
ripropone stilemi propri della fase precedente.
I titoli dei dieci testi raccolti in Elegie
si presentano straordinariamente coesi: sette contengono una precisa
indicazione geografica75 e uno, Di Natale, un’esplicita nozione di tempo; questi otto titoli sono
inoltre caratterizzati dalla costante presenza della preposizione “di” (in un
caso articolata in “della”). Solo vice veris e Cinque elegie brevi
sfuggono a tale scrupolosa determinazione spazio-temporale, ma ad entrambe le
liriche Fortini ha assegnato un ruolo del tutto particolare: vice veris,
come visto, è proposta quale lirica che si oppone “dall’interno” a quelle che
immediatamente la precedono, mentre a Cinque elegie brevi è attribuita la
funzione di poesia eponima con valore di premessa.
Le precise indicazioni contenute nei titoli non
trovano poi alcun effettivo sviluppo nei testi, il cui cronotopo si riduce ad un
astratto scenario nel quale si afferma quello che –come già accennato – è
l’unico reale protagonista di Elegie, l’io del poeta. I complementi di
argomento, introdotti dalla preposizione “di”, fanno scivolare in secondo piano
la concretezza dei luoghi, che pur possedendo per l’autore un reale valore
autobiografico finiscono per rappresentare un mero pretesto: ciò che conta sono
i ricordi e i pensieri sorti nel poeta a partire dalle suggestioni ricevute da
quei paesaggi. Come ha affermato Sabbatino, «tutto ruota attorno alla centralità
dell’io fortiniano, rispetto al quale i luoghi e le situazioni ricevono una
collocazione prospettica»76. Inoltre, continua Sabbatino, «il modulo grammaticale che rivela il deciso
protagonismo del poeta, la dimensione autobiografica, è l’aggettivo possessivo»77.
E anche al di là del caso specifico dell’aggettivo, in Elegie a prevalere
è sempre la prima persona singolare: l’io lirico, con la sua voce e il suo punto
di vista sul mondo, è costantemente solo sulla scena, anche quando ricorre al
“tu” per rivolgersi alla donna amata e perduta (Cinque elegie brevi, pp.
39-43; Di Natale, p. 45; vice veris, p. 61) o ad altri più o meno
astratti destinatari (una seconda persona del tutto generica in Di Maiano,
pp 49-50; l’anima stessa del poeta in Della Sihltal, p. 59, e in
Di Palestrina, p. 51; la smarrita speranza giovanile in Di
Vallecrosia, pp. 53-54; un «viandante» in Tomba di Vetulonia, pp.
57-58)78. L’io lirico di Elegie non esce dal guscio dei propri affetti e dei propri
sgomenti. In questo senso è particolarmente palese la discrepanza con i testi di
Gli anni, disseminati di prime persone plurali che coinvolgono, insieme
all’io poetante, il popolo martoriato dalla guerra (si vedano Quando, p.
13; Varsavia 1939, p. 21; Se sperando, p. 17; Coro di deportati,
p. 25; Per un compagno ucciso, p. 29; Canto degli ultimi partigiani,
p. 31).
Visto che nella seconda sezione di Foglio di
via troviamo non solo, e forse non tanto, liriche dei tempi fiorentini, ma
liriche di tema fiorentino, occorre valutare quale definizione di tale periodo
veicolano questi testi, stilisticamente ancora caratterizzati da una concezione
classicistica della poesia, ma già chiamati a produrre una riflessione e un
giudizio intorno alla fase prebellica, appena chiusasi o sul punto di chiudersi.
Sono oscurità e assopimento, secondo Fortini, a contraddistinguere i suoi anni a
Firenze. Non sorprende perciò trovare nelle liriche inserite in Elegie
foschi paesaggi tardo autunnali e invernali. Nella seconda delle Cinque
elegie brevi (p. 40) incontriamo un verso come «Un’ala ha sfiorato la
spenta laguna», cui tiene subito dietro il sintagma «cerchi d’acqua bruna» (vv.
2-3); nella quarta elegia (p. 42) si legge: «presto la sera verrà» (v. 3); e
nella quinta (p. 43): «dove si perde l’alito di questa notte» (v. 2). In Di
Porto Civitanova (p. 47) i vv. 10-11 recitano: «l’opaco mare | che deserto
scompare oltre le nebbie». In Di Maiano (pp. 49-50) dominano il freddo
autunnale e la notte: «Ora che dai gelati alvei dei fiumi | ai pascoli deserti
salirà | novembre e ai fumi delle baite» (vv. 1-3), «viene inverno» (v. 21),
«tutta la notte» (v. 26). E lo stesso avviene in Di Vallecrosia (pp.
53-54): «È l’ora di rientrare nelle case | che suonano vuote, nelle serre dove
le reti | di novembre riposano e le falci» (vv. 4-6), «E tu, mio autunno oscuro,
| cadrai, breve riparo» (vv. 29-30). In Tomba di Vetulonia (pp. 57-58) si
legge: «Le mie dita di cenere | non giungono a queste pietre | dove la notte è
stata murata | non alla mia scure spenta» (vv. 1-4), «ombra che mi fa cieco!»
(v. 9), «Poi fu la notte» (v. 32). E in Della Sihltal (p .60): «Ora che
inverno | ghiaccia i tuoi specchi» (vv. 20-21), «là dove Arno era | eterno nelle
sere» (vv. 26-27), «i passi nel buio | le notti celesti di glicine fiorentino» (vv.
33-34). Infine, come già accennato, la connessione inverno-giovinezza è presente
anche in vice veris (p. 61): «dagli inverni ove a fatica | si levò questo
esistere mio vivo» (vv. 9-10).
Tale ampia serie di freddi paesaggi notturni
funge da adeguata introduzione alle immagini attraverso cui il poeta – di nuovo
in strettissima consonanza con E questo è il sonno… e vice veris –
rievoca i suoi anni giovanili: immagini di torpore e riposo, di sonno e riparo,
spesso accompagnate da accenni a un metaforico stato di morte. In Di Maiano
(pp. 49-50) si legge: «entro | chiusi giardini, acque opache, e un’eco | di
fonte da ninfei d’edera. Sempre | parve e sparve un riposo» (vv. 14-17), «il
sonno morto | che ora grava la mia nemica città» (vv. 24-25). Nella terza delle
Cinque elegie brevi (p. 41) troviamo: «Ora dal sonno l’alito alto dei
platani» (vv. 1-2). Nella quinta elegia (p. 43) gli anni fiorentini sono di
nuovo associati alla morte, emblema della distanza che separa il presente dal
passato: «l’onda | che ascolto quieta dei fiumi; dove discendono gli anni |
morti, le voci spente» (vv. 2-4). Il medesimo procedimento si trova in Della
Sihltal (p. 60), dove il poeta si rivolge direttamente all’“io” dei tempi
prebellici: «Dove invochi | la tua bellezza ai visi morti folti | nelle
muraglie che guardano?» (vv. 23-25, corsivo originale). In Di Vallecrosia
(p. 54) incontriamo i versi già citati: «E tu mio autunno oscuro, |
cadrai, breve riparo. Non sarò | più nulla» (vv. 30-31). In Di Porto
Civitanova (p. 47), come in E questo è il sonno…, l’assopimento del
poeta è legato al suo profondo contatto col mondo naturale: «E m’addormenta con
soave suono | ogni senso la musica continua | dell’onde» (vv. 8-10).
Una sintesi eloquente delle due costellazioni di
immagini identificate si trova in Di Palestrina (p. 51), dove, ai vv.
1-8, un grigio autunno getta un’ombra oscura sull’appartato «riposo» del giovane
poeta:
Dalla grata dell’orto
la vite al muro spento.
Tocca una foglia il vento
al ramo morto.
Vento di novembre
borgo nuvoloso
questo nostro riposo
ora lo riconosco.
Tale raffigurazione del periodo fiorentino va
letta alla luce delle parole del Fortini maturo, che descrive la propria
giovinezza nei termini di insufficienza ed errore, in costante riferimento alla
ristrettezza del suo sguardo di allora, incapace di aprirsi sul mondo e di
comprenderlo. Di qui – come già visto a proposito della poesia d’apertura del
libro – il tema del sonno inteso come assopimento intellettuale, dal cui torpore
il poeta si risveglia solo con l’attraversamento della tragedia bellica: «è
solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani
vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa»79.
In consonanza con tale atteggiamento, la
penultima poesia della sezione, Della Sihltal (pp. 59-60), contiene una
precisa e vigorosa presa di distanza dal recente passato. Eccone la seconda, la
terza e la quinta strofa – quest’ultima evidenziata da Fortini attraverso il
corsivo, per dare risalto al fondamentale momento in cui l’io poetante si
rivolge all’io dei tempi fiorentini:
Spenti sulle pareti i santi cristofori
dagli acanti di pietra
migrando le vergini al vento esili spoglie
di molto antiche rose.
Dove creduto le sorde parole
dove sperato la trista sapienza
dove amato le carni sole.
[…]
(E in te era vera ogni domanda e l’affanno
di giovinezza che ora è solo questo
mormorio di demòni ciechi al fondo
era docile furia era l’inganno
beato dove le dita custodi
a dare pace immergevi e la fronte [...]).
Qui, con ancora maggiore energia che nei testi precedenti, vengono messe esplicitamente in discussione tutte le esperienze fondanti del periodo prebellico: oltre agli amori giovanili («dove amato le carni sole»), il prolungato studio della storia dell’arte («spenti sulle pareti i santi cristofori»: si notino il plurale e la minuscola generalizzanti e, in qualche modo, sprezzanti)80. e la fede religiosa, abbracciata a partire dal ’37 81 («l’affanno | di giovinezza […] era l’inganno | beato dove le dita custodi | a dare pace immergevi e la fronte»)82.
10. Sono due le ragioni finora individuate alle
base della strategia della dissimulazione attuata da Fortini nei
confronti del suo passato. La prima è di ordine biografico. Come visto,
l’emarginazione patita a partire dalla fine degli anni Trenta rende a tal punto
travagliata e amara la giovinezza del poeta, da generare in lui la necessità di
rimuoverla dalla propria memoria: «Non mi riesce più di ricordare chi ero, sono
passati cinquant’anni dal ragazzo che si proponeva di scrivere tante poesie
quante quelle del Carducci»83. La seconda ragione fondamentale della stigmatizzazione, dell’occultamento e del
travestimento degli anni fiorentini è invece di matrice politico-culturale, e
agisce ampiamente proprio nella messa a punto di Foglio di via, il cui
sbilanciamento a favore del clima bellico e resistenziale ha effettivamente
permesso al poeta di presentarsi con le carte in regola negli ambienti con cui è
entrato in contatto sin dal primissimo dopoguerra. Sia che Fortini esibisca la
sua produzione bellica e postbellica come precocemente aggiornata sui più
recenti stilemi dell’impegno neorealistico, sia che cerchi di proporre la sua
poesia giovanile come bene accordata con la “lirica nuova”, si ha l’impressione
che agisca in lui qualcosa di simile alla pasoliniana «vergogna || di non essere
– nel sentimento – | al punto in cui il mondo si rinnova»84.
Tale atteggiamento determina alcune scelte
editoriali di Fortini anche nel corso degli anni Sessanta, quando cioè si
guadagna un posto di riguardo sulla scena culturale italiana85.
L’imporsi della sua figura d’intellettuale è coinciso con una fase politica
particolarmente “calda”, quella che ha visto il sorgere e il graduale esaurirsi
del cosiddetto Movimento del Sessantotto, del quale Fortini, a più riprese, è
stato definito profeta e guida:
Il ’65 è l’anno di Verifica dei poteri e dell’antologia Profezie e realtà del nostro secolo. […] Con questi due libri, discussi e recensiti su numerosi quotidiani e periodici, Fortini raggiunge un ampio ambito di lettori, stabilendo, a livelli diversi e coerenti, alcune delle principali “premesse politico-ideologiche proprie dell’età che chiamiamo il ’68”.86
Non stupisce dunque che il poeta, nel 1967,
quando ripropone Foglio di via, decida di togliere, rispetto alla
precedente edizione, sette testi, tutti appartenenti ad Elegie, per
sostituirli con altrettante liriche testimoni dell’esperienza della guerra,
rendendo ancora più evidente lo squilibrio della raccolta in direzione del clima
bellico e resistenziale87. Trovandosi ad approntare una nuova edizione di Foglio di via sulla soglia
degli anni della contestazione, il poeta mira senz’altro a situare i fondamenti
del proprio curriculum intellettuale nella Milano bombardata o in quella del
già mitico «Politecnico». Forse non è un caso che nel 1963, cioè all’inizio del
decennio in cui vive la sua definitiva consacrazione, Fortini pubblichi le
memorie del tempo di guerra, Sere in Valdossola, e che all’estremo
cronologico opposto, nel 1973, metta di nuovo in circolo Dieci inverni,
il cui primo articolo – Che cosa è stato «Il Politecnico»? – è un
minuzioso riesame delle vicende della rivista vittoriniana. Dunque, se già nella
prima edizione di Foglio di via Fortini proponeva una sintesi del proprio
passato sbilanciata sugli anni bellici, assegnandosi una sorta di data di
nascita intellettuale da attestarsi al 1942, lo stesso Fortini, tra il 1963 e il
1973, ricelebra tale “battesimo” con ancora maggiore determinazione e
autorevolezza88.
Le opere pubblicate subito dopo il conflitto
mondiale (Foglio di via, 1946; Agonia di Natale, 194889
e alcune di quelle apparse nel decennio ’63-73 (su tutte Sere in Valdossola,
1963; I cani del Sinai, la seconda edizione di Foglio di via,
1967; Poesia e errore, 1969, la seconda edizione di Agonia di Natale,
1972) designano queste due fasi come momenti chiave per la comprensione degli
esordi fortiniani. Ma entrambi questi periodi sono attraversati da un fermento
politico e sociale affatto antitetico rispetto al clima bloccato imposto dalla
dittatura fascista negli anni Trenta. Tale incomunicabilità col presente è
un’altra delle cause che rende impossibile per il poeta un effettivo riscatto
dei suoi primissimi testi, anche al dei là di legittimi dubbi sulla loro
qualità. Leggendole secondo tale prospettiva, capiamo meglio le parole con cui
Fortini spiega l’esclusione delle liriche prebelliche da una sua autoantologia
uscita proprio pochi mesi prima dell’“autunno caldo”, e cioè la nuova edizione,
ampiamente rivista, di Poesia ed errore: «Da anni il libro è esaurito e
mi è parso opportuno darne un’altra ristampa. Cominciava con poche poesie
scritte a vent’anni […]. Non c’era motivo di riproporre quei versi, di un
periodo assai diverso da quello venuto poi; e non si trovano qui»90.
Il trattamento svecchiante riservato da Fortini
alle sue opere è il frutto di una prolungata riflessione intorno ai criteri coi
quali occorre accostarsi al bagaglio culturale ereditato dal passato. Egli opta
per affrontare di petto la tradizione, che considera un patrimonio con cui è
giocoforza confrontarsi; e all’interno di questo sceglie e gerarchizza, anche a
partire da premesse che con la letteratura hanno poco a che fare. È perciò
radicalmente contrario a trattare tale lascito con sterile rispetto filologico,
insistendo piuttosto sulla necessità del suo “reimpiego” in base alle nuove
priorità espresse dal presente:
quello che distingue una cultura attiva e viva da una cultura di decadenza è appunto l’attitudine a non abitare tra i monumenti della propria letteratura nazionale (o delle altrui) come tra vaghi miti di una religione defunta, a quel modo che fanno i fellah tra le statue dei Faraoni o i patagoni, fra i colossi dell’Isola di Pasqua; ma a scegliere invece di render parlanti alcuni di quei monumenti ed abitabili alcune di quelle necropoli o chiese e città; e abbattere il resto.91
Come afferma Gianni Turchetta, Fortini a più riprese
sottolinea quanto la formazione di un canone, con la correlativa scelta dei classici, e la costruzione di una “tradizione” abbiano a che fare (non soltanto per un gioco di parole) con un costante lavoro di “traduzione” […]. In opposizione con il continuismo storicista, Fortini percepisce il tempo come una dimensione discontinua, segnata da salti, fratture e, per l’appunto, morti, cioè fini irreversibili. Di fronte alla dinamica della storia egli ci invita a non farci illusioni sulla, per così dire, fluidità dei passaggi, e sulla capacità del futuro di conservare tutto il proprio passato.92
Il principio del riuso dei frutti lasciati in dote dal passato è, sul piano della teoria, il nulla osta al costante aggiornamento cui Fortini sottopone le sue opere. Lo stimolo al confronto faccia a faccia con la tradizione fa sì che egli risistemi e riproponga la sua produzione artistica ed intellettuale alla luce delle esigenze del tempo in cui va a collocarsi: cerca, insomma, di «render parlanti alcuni» dei suoi testi e si rassegna ad «abbattere il resto». Fortini, che presta continuamente ascolto anche alle minime trasformazioni del presente, prova a non disgiungere mai il suo lavoro dalle urgenze della contemporaneità; operazione che compie persino sul proprio passato: anche a costo di qualche malizia, come si è visto.
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[1] Il primo testo firmato con il nuovo cognome è un saggio che ha per titolo La prosa di Romano Bilenchi: Fortini 1940, pp. 15-19. Le prime liriche pubblicate a firma Franco Fortini (Due elegie brevi, Compagni, Voce di prigionieri, Tre tempi) compariranno due anni dopo su «Letteratura»: Fortini 1943, pp. 73-74. Ma è almeno dal ’39 che Lattes pensa di abbandonare il cognome paterno, come emerge da una lettera che scrive a Giacomo Noventa l’estate di quell’anno: «Sulla faccenda della mia tessera, ancora nulla di nuovo: circa il mutamento del nome, aspetto che esca la Legge» (per la datazione della lettera, inedita, conservata presso l’Archivio Franco Fortini dell’Università di Siena, si veda infra nt. 13). Con un pizzico di ironia, il poeta nel ’65 precisa: «Mia madre veramente si chiamava Fortini del Giglio; ma l’idea di andare avanti con quel giglio non mi persuase», in Fortini 1965a, p. 84.
[2] Dichiarazione di Franco Fortini in Spagnoletti 1959, p. 821.
[3] Cfr. F. Fortini, La città nemica, in Fortini 1946, p. 11. In seguito citerò le liriche di Foglio di via e altri versi dalla prima edizione della raccolta indicando semplicemente il numero di pagina.
[4] Fortini 1993, pp. 43-4. Già in un articolo del 1945 Fortini assumeva un identico atteggiamento: «Le celle delle prigioni e le baracche dei “Lager” sono state indubbiamente l’occasione di innumerevoli esami di coscienza, o almeno “prese di coscienza”. […] Allora la vita passata, non più congiunta al presente dai mille ligamenti della necessità, appare come quella di un altro, distaccata, librata e come limitata da una cornice: […] un volgersi indietro verso qualcosa di irrimediabilmente perduto», in Fortini 1945a. Per un documentato resoconto dei mesi trascorsi da Fortini a Zurigo e nei campi di accoglienza per rifugiati della Svizzera, si veda Broggini 1999, pp. 121-168; Fortini rievoca i suoi anni bellici in Fortini 1963a.
[5] Fortini 1998a, pp. 30-1.
[6] Fortini 1967a, p. 359. Il verso citato, «Un sole sui volti profondo», è il terzo di Se sperando (1938), in Fortini 1946, p. 17.
[7] Fortini 1967a, p. 359 (corsivi miei).
[8] Fortini 1967b, p. 415.
[9] Fortini 1998a, p. 23.
[10] A suo modo, con ironia e acume, Cesare Cases, fissando l’attenzione sul rifiuto opposto da Fortini alle proprie origine ebraiche anche dopo la guerra e l’abrogazione delle leggi razziali, nota l’esistenza di una ferita ancora aperta nella vita dell’amico: «Quando andai in Spagna gli mandai una cartolina con la sinagoga di Toledo e i seguenti versi: “Qui pregarono, o Lattes, dei rabbini | Ignari di esser avi di Fortini” […], era una discreta allusione al fatto che lui dopo la fine delle leggi razziali non aveva ripreso la sua identità di ebreo», in Cases 1996, p. 4.
[11] In uno dei suoi ultimi interventi il poeta ha affermato: «nel ’38 cominciarono, durante il regime fascista, le discriminazioni razziali, che colpirono gli ebrei e, quindi, la mia famiglia. Da quel momento fu un progressivo chiudersi a tante care amicizie; significò vivere in una condizione di isolamento, di disperazione personale, con la crescita in me di un sentimento di ostilità, fino alla chiamata alle armi nel ’41, che rappresentò un vero e proprio atto di liberazione», in Fortini 1998b, p. 733.
[12] Sul rapporto tra Fortini e Noventa si veda: Luperini 1986, pp. 15-19; Pagnanelli 1988, pp. 141-46; Urgnani 1996, pp. 80-90; Lattarulo 1999, pp. 9-19.
[13] Per quanto riguarda la datazione della lettera, un termine post quem è deducibile da un’affermazione posta in apertura: «Bilenchi mi ha parlato benevolmente della “Riforma”, ha espresso il desiderio di numeri arretrati che ha dovuto dare a un amico, ha criticato con serietà il “Montale”». Queste ultime parole si riferiscono alla Nota su Montale, l’ultimo pezzo scritto da Lattes per «La Riforma Letteraria», poco prima che la rivista fosse costretta dai fascisti a interrompere le pubblicazioni; la lettera è quindi posteriore all’uscita dell’articolo, avvenuta nel giugno del 1939. Un termine ante quem è invece rintracciabile in quest’altro passaggio dello scritto inviato a Noventa: «Bonsanti mi annuncia nel n. prossimo, ma stamperà nel 12, ottobre». Il numero di «Letteratura» uscito tra il giugno e l’ottobre del 1939 è quello di luglio (ma non vi appare nessun annuncio della prossima uscita delle poesie di Lattes, effettivamente pubblicate sul numero di ottobre). La lettera è stata quindi scritta nei giorni a cavallo tra il giugno e il luglio del 1939. Il documento, inedito, conservato presso l’Archivio Franco Fortini di Siena, è stato esposto in Lenzini 2004.
[14] Lattes 1938a, pp. 77-94; Lattes 1939a, pp. 14-18.
[15] Lettera a Giacomo Noventa cit.
[16] Raboni 1986, p. 193.
[17] Fortini 1990a, p. 616.
[18] Fortini 1987a, pp. 461-62.
[19] «Nei miei confronti Vittorini è stato quello che poi è stato per moltissimi altri; ha aiutato la mia nascita d’autore. Perché proprio durante quell’estate [1945] feci leggere a Elio i miei primi versi che Elio poi mi aiutò a pubblicare presso l’editore Einaudi», in Fortini 1966a, p. 105. Sul ruolo di Fortini all’interno di «Il Politecnico» si veda Tancredi 1969, pp. 17-30.
[20] «Il fatto che, nel giro di pochi mesi, mi sia trovato in un ambiente elettrizzante come quelle del “Politecnico” di Vittorini, nella Milano dell’ottobre del 1945, può far capire che non era il caso veramente di sentire la voglia di riflettere, di analizzare», in Fortini 1998a, p. 36.
[21] Fortini 1946, p. 5.
[22] Fortini 1967a, p. 359.
[23] Questa poesia ci porta ben dentro al clima bellico, dal momento che contiene il ricordo dei due viaggi affrontati dal poeta-soldato in direzione della Svizzera: subito dopo l’armistizio, Fortini, tenente dell’esercito, espatria per la prima volta in territorio elvetico attraversando le Prealpi comasche; poi, nell’ottobre del ’44, dopo l’esperienza partigiana in Valdossola, raggiunge la Svizzera percorrendo la Val Dévero. In sintonia con i versi citati, entrambi i luoghi dell’autobiografia bellica fortiniana (Sere in Valdossola) che danno conto di questi trasferimenti attraverso le Alpi si chiudono sul poeta che perde di vista i compagni e rimane solo. In questo senso è di particolare interesse la rievocazione liricheggiante della marcia che Fortini intraprende dopo la disfatta della Repubblica partigiana della Valdossola; vi troviamo, infatti, lo stesso gelido paesaggio descritto nei versi di Foglio di via: «L’Italia era ormai dietro di me; e io ero solo, con una strana musica di quiete nella mente affaticata, tanto minuscole divenute le figure degli altri che scendevano di pendio in pendio, scancellati dai fumi di neve, rosa dal vento lungo le creste di ghiaccio; mentre volgendomi verso la valle dell’Alto Rodano, ai lampi che incoronavano le nuvole lo sguardo andava scoprendo figure di montagne», in Fortini 1963, p. 203 (ma si vedano anche pp. 156-57). Cfr. inoltre Lenzini 2003, p. XC e p. XCIV.
[24] Fortini 1945b, p. 2.
[25] Fortini 1959, p. 118. Pampaloni si richiama a questa poesia nel titolo della sua importante recensione a Poesia ed errore: Pampaloni 1959, pp. 70-74.
[26] Fortini 1957, pp. 59-60.
[27] A questo proposito si vedano gli articoli in cui lo stesso Fortini polemizza con due dei poeti più influenti degli anni Trenta: Lattes 1939b, pp. 55-61, e Lattes 1939c, pp. 62-69.
[28] Berardinelli 1973, p. 23.
[29] Fortini 1967a, p. 360.
[30] Raboni 1980, p. 254.
[31] Lenzini 1999a, p. 60.
[32] Dello stesso avviso è Elio Accrocca, quando afferma che il tono contemplativo di Elegie e quello «impoetico» e «scopertamente politico» di alcuni testi di Gli Anni trovano la loro naturale evoluzione negli «accenti di pura e corretta commozione» di una lirica di Altri versi, Lettera al padre (1944), in cui dimensione personale e collettiva confluiscono proficuamente in toni «più umani e distesi», in Accrocca 1959, p. 5. In Altri versi si trovano anche dei veri e propri esperimenti poetici, come La buona voglia, La saggezza, Canzone per bambina, Imitazione del Tasso; testi che svelano la presenza di una vena allegra e briosa all’interno della produzione fortiniana. Ma si tratta di un filone carsico, che riemerge solo negli epigrammi di L’ospite ingrato (Fortini 1966b), e in alcuni accenti dell’estremo Composita solvantur (Fortini 1994), dove però è venato da un retrogusto amaro, se non tragico, sostanzialmente assente nell’ultima sezione di Foglio di via.
[33] Calvino 1946, p. 1057.
[34] Nava 1987, p. 25-27.
[35] La città nemica si trova a pag. 29 di Fortini 1959. In questo libro le liriche sono scrupolosamente datate e disposte in un rigoroso ordine cronologico per volere di Giorgio Bassani, curatore della collana di poesia presso cui Poesia ed errore è uscita: «Giorgio Bassani (che aveva ricevuto da Feltrinelli l’incarico di dirigere una collana di poesia) mi disse: «“Fortini, devi raccogliere tutte le tue poesie”. “Come tutte?”. “Sì, tutte, anche quelle di Foglio di via”. E allora gli mandai, diciamo, trecento poesie. Disse: “Provvediamo a toglierne un terzo”. Ed io: “D’accordo. Ma le altre non ho nessuna idea di come ordinarle”. E lui: “È un romanzo, mettile in ordine cronologico”», in Fortini 1987a, p. 461. La proposta di Bassani di organizzare la raccolta secondo un ordine rigidamente cronologico ha fatto venir meno una struttura su cui la mano dell’autore potesse agire concretamente. Lo scambio epistolare tra Fortini e Bassani, per quel che attiene all’allestimento della raccolta del ’59, è conservato presso l’Archivio Feltrinelli di Milano e l’Archivio Fortini di Siena.
[36] Un discorso simile si potrebbe azzardare (ma solo azzardare, vista l’assenza di conferme oggettive) per una poesia datata 1938 e inserita anch’essa nella prima sezione della raccolta: Se sperando; sarebbe interessante sapere, ad esempio, se il verso isolato finale, che recita: «Compagni, se tutto non è finito…», sia originale o sia piuttosto il frutto di una revisione postbellica. Naturalmente, Fortini non ha applicato tale atteggiamento solo alle liriche di Foglio di via: si noti, ad esempio, che le curatrici del suo “diario pubblico”, uscito postumo, Un giorno o l’altro, definiscono come «un’operazione tipicamente fortiniana» quella di compiere «decisi interventi» sulle proprie opere, fino a giungere ad «un lavoro capillare di riscrittura, modificando non solo la lettera ma anche – e profondamente – l’identità del testo di partenza, persino nella sua collocazione cronologica», in Fortini 2006, p. XXII.
[37] Romagnoli 1946.
[38] Tuttavia, come ha notato Pier Vincenzo Mengaldo, se è vero che «tutti, certo, hanno tentato di rinnovarsi negli anni quaranta […] parla e contrario l’evidenza che in Italia il capolavoro poetico, e di gran lunga, della seconda guerra mondiale è il Diario di Algeria di Sereni: non celebrazione di un tuffo nel sociale e di una palingenesi personale e storica, ma diario strettamente individuale di una strozzatura e di una sconfitta», in P.V. Mengaldo 1991a, p. 156.
[39] Fortini 1967a, p. 358. Romagnoli, nella sua recensione alla raccolta, segnalava inoltre: «In questo volume di versi di Franco Fortini il lettore […] ritrova tutto il processo della poesia moderna», in Romagnoli 1946.
[40] Mengaldo 1975, p. 416.
[41] A incrementare in Italia questa tecnica in modo robusto «sono Ungaretti e dopo di lui gli ermetici. In Quasimodo, che la applica anche ai suoi lirici greci, è la forma prediletta d’intitolazione […]. Il titolo perde così il carattere di mera etichetta e viene spogliato della sua funzione referenziale e diciamo didattica in funzione della pura suggestione, come di una risonanza o meglio di un armonico del testo, che ne suggerisce in anticipo la tonalità. Perciò questo tipo di intitolazione, che potrebbe anche definirsi un non-titolo, indica con precisione il processo di de-concettualizzazione che tanta lirica contemporanea subisce, il suo sottrarsi al riassunto e alla parafrasi se non addirittura il prevalere tendenziale del tono sul senso», in Mengaldo 1991b, pp. 14-15.
[42] Fortini 1967a, p. 358. Presso l’Archivio Fortini dell’Università di Siena si conserva un disegno preparatorio di quello posto sulla copertina di Foglio di via; tale bozzetto è riprodotto in Fortini 2001, p. 54.
[43] Se ne incontrano quattro perfetti, uno ipermetro crescente di una sillaba, due con accenti di settima, uno con accento di quinta.
[44] Come ha spiegato Mengaldo, «se tentiamo una definizione su base linguistica dell’ermetismo, nel complesso ci troviamo in realtà di fronte a due ermetismi […]: un ermetismo clus e ric e un ermetismo leu, o per continuare ad usurpare un produttivo binomio del dibattito filosofico degli ultimi anni, un ermetismo “forte” e uno “debole”, che rispetto al primo sottrae gli ardimenti più specifici attestandosi su un modernismo generico, declinato elegiacamente e linguisticamente poco problematico», in Mengaldo 1991a, p. 148. Gianni Scalia, in riferimento agli esordi del Fortini poeta, già nel ’59 affermava: «la sua opzione è per un ermetismo “storico”, più rigoroso non solo nel linguaggio, nell’ars retorica; scarta l’ermetismo immaginifico, “barocco”, ipertensivo», in Scalia 1959, p. 13.
[45] Il vento è un protagonista assoluto della lirica quasimodiana prebellica e, come ha segnalato Giovanni Raboni, gioca un ruolo chiave anche nei testi coevi di un altro campione dell’ermetismo, Mario Luzi: “vento” è la «parola ricorrente più di ogni altra, nei suoi testi di questo periodo», in Raboni 1989, p. 108.
[46] Fortini 1974.
[47] Fortini 1978a.
[48] Fortini 1990b, dove E questo è il sonno… è collocata in testa a Gli anni.
[49] Poetica di punta, ma non certo l’unica, sebbene a lungo la critica si sia soffermata più sulle analogie che sulle differenze esistenti tra i massimi poeti degli anni Venti e Trenta, assimilandoli quasi tutti all’onnicomprensiva sfera ermetica. Le poesie di Montale, ad esempio, e soprattutto le Occasioni, fino a tempi relativamente recenti sono state considerate parte integrante dell’ermetismo e non sua alternativa, come ormai è largamente riconosciuto (cfr., ad esempio, Mazzoni 2002, pp. 29-40).
[50] Queste ultime due liriche – non inserite in Foglio di via – appaiono per la prima volta in Lattes 1939d, pp. 74-75, e vengono poi collocate in apertura di Fortini 1959, pp. 10-11. Senza preghiera si trova anche in testa a Fortini 1987b, p. 9.
[51] Si veda, ad esempio, come Romagnoli nella sua già citata recensione a Foglio di via affermi: «Le poesie più lontane (alcune del ’38, molte del ’39) recano in sé un’influenza ermetica riconoscibilissima, ma già ribelle, già lontana dai modelli, e che sempre più tende a scomparire man mano che si avanza negli anni, al ’44 e al ’45», in Romangnoli 1946. Anche Delia Frigessi, recensendo l’ampia autoantologia Poesia ed errore, parla di «accenti ermetizzanti dei primi anni poetici», in Frigessi 1959, p. 545. Sergio Pautasso, recensendo a sua volta il volume fortiniano del ’59, sostiene che la «poesia di quegli anni [giovanili], raccolta ora nel volume Poesia ed errore, risente non poco l’influenza ermetica», in Pautasso 1959, p. 76. Gilberto Finzi, in un suo intervento su Una volta per sempre (Fortini 1963b), riassume l’esperienza giovanile di Fortini affermando che il poeta è «partito ermetico, con un bel libro che aveva gusto e sapore di poesia (Foglio di via, 1946)», in Finzi 1963, p. 1327. Giuliano Manacorda sostiene che le poesie fortiniane «di prima [della guerra] appartengono alla fase delle sperimentazione ermetica», in Manacorda 1996, p. 71.
[52] La poesia, con il titolo di Epigrafe per Foglio di via, si trova a p. 82 di Poesia ed errore (Fortini 1959) con in calce, appunto, la data 1946 (sull’attendibilità della datazione dei testi inseriti in Poesia ed errore si veda la nota 35).
[53] Fortini 1945c (corsivi miei). Devo la conoscenza di questo articolo a una gentile e acuta segnalazione di Luca Lenzini.
[54] Ibidem.
[55] I testi a cui faccio riferimento sono: Colline colorate un’altra gioia (Lattes 1935, p. 9); Estate; Il cielo (Lattes 1936); Canto per il vento d’estate; Viaggio d’autunno; Quotidiano ritorno; Ogni istante (Lattes 1938b, pp. 167-72); Introduzione e intermezzo in tre parti (Fortini 1938c, pp. 25-27); Avviso; Qui non si fan… (Fortini 1941, pp. 86-87); Da ventidue anni; Acqua del cielo salute; Piccolo zoo (Fortini 1997, pp. 3-7); Era agosto; Contro un fariseo letterario; Lieve, ah, così…; Non è vero che le opinion (testi inediti conservati presso l’Archivio Franco Fortini di Siena). A tutt’oggi, l’analisi meglio documentata delle prime liriche fortiniane si trova in Pulina 1989, pp. 68-76.
[56] Non a caso, Fortini scrive un polemico saggio intitolato Monologo della pazienza (Lattes 1938a) – sarcastica analisi di un articolo di Piero Bigongiari (Bigongiari 1938) –, in cui attacca l’oscurità dei testi dei suoi coetanei e concittadini affiliati all’ermetismo.
[57] Scalia 1959, p. 13.
[58] Sabbatino 1982, p. 30.
[59] Scalia, nella citata recensione a Poesia ed errore, indica proprio nella forte presenza sulla pagina di un concreto io poetante una delle differenze più significative che intercorrono tra la poesia del giovane Fortini e quella ermetica; cfr. Scalia 1959, p. 12.
[60] Tale impostazione stilistica è forse da mettere in relazione con gli intensi studi accademico-letterari che il giovane Fortini affronta all’inizio degli anni Quaranta: «Nell’annata fra il 1940 e il 1941 lavorai, per suggerimento di Luigi Momigliano e di Bruno Migliorini, sul Cinquecento, in vista di un’edizione di Galeazzo di Tarsia. Lessi Michelangelo, Bembo, Tansillo, Della Casa e molte sillogi di rime Cinquecentesche […]. Mi introdussero al grande manierismo, dove il linguaggio, la lingua, i luoghi del Petrarca erano un confine elettivo entro cui operare. Mi trovavo a partecipare intensamente di una poesia iperletteraria, un modello non lontano dall’aura dei manieristi fiorentini studiata nei due anni precedenti e che mi aveva suggerito la tesi sul Rosso», in Fortini 1993, p. 41.
[61] Lenzini 1999a, p. 57. Nella medesima direzione si muove Mengaldo, che individua nella poesia giovanile fortiniana «taluni momenti della tradizione italiana più classica (particolarmente affiorano, in Foglio di via, cadenze foscoliane e leopardiane)», in Mengaldo 1975, p. 417.
[62] Mazzoni 2005, p. 144.
[63] Ivi, p. 151.
[64] Cfr. Lenzini 1999a.
[65] «Presso porti ostruiti, lavori abbandonati, | in orti strangolati, e in una valle silenziosa | dove i cani dilaniarono una preda o un uccello», in Auden 1930, p. 348 (la versione italiana a cui si fa qui riferimento – l’unica integrale attualmente disponibile di Consider – traduce harbours con “ponti” e non con “porti”, ma è da considerarsi un refuso). Il passo estrapolato da Fortini chiude la seconda delle quattro strofe, di lunghezza variabile tra gli undici e i quattordici versi, di cui si compone la poesia.
[66] Riferendosi a Poems, la raccolta di Auden del 1930 in cui Consider è compreso, Francesco Binni ha affermato: «Gran parte delle poesie qui raccolte conduce una analisi che potremmo dire politico-psicologica della società inglese, riconducendo agevolmente un difettare di umanità ad un sistema chiaramente capitalistico: ma la poesia audiana di quel periodo sfugge al grezzo contenutismo di tanta coetanea poesia di propaganda marxista proprio in virtù di una più profonda e articolata mistura in cui l’elemento psicologico domina», in Binni 1967, p. 76 (sulla produzione poetica di Auden degli anni Venti e Trenta si veda anche Binni 1995, pp. 15-77).
[67] Auden ha preso parte alla guerra di Spagna nelle file repubblicane.
[68] Fortini 1967a, p. 361. Cfr. anche Lenzini 1999b, pp. 127-29.
[69] «Considera questo e nel nostro tempo, | come il falco o l’aviatore può vederlo: | si squarciano le nubi all’improvviso – guarda | quel mozzicone di sigaretta che brucia su un bordo | al primo garden-party di stagione. | Va oltre, ammira la vista del massiccio | dalle vetrate dello Sport Hotel; | e lì raggiungi le unità insufficienti, | dannose, facili, in pelliccia, in uniforme, | sistemate come costellazioni ai tavoli riservati».
[70] «…suprema Antagonista, | più potente della grande balena del nord, | antica e dolente al difetto limitante della vita | […]. Ogni giorno tu parli ai tuoi ammiratori | presso porti ostruiti, lavori abbandonati, | in orti strangolati, e in una valle silenziosa | dove i cani dilaniarono una preda o un uccello fu colpito». Nell’edizione da cui si cita un’apposita nota conferma l’identificazione della «suprema Antagonista» con la morte; cfr. Auden 1930, p. 349.
[71] Fortini 1967b, p. 433. Quasi trent’anni dopo, nella stessa prefazione in cui s’indica Auden tra i maestri del periodo bellico, abbozzando un ritratto della propria giovinezza, Fortini utilizzerà, tradotti alla lettera, alcuni dei termini dell’epigrafe audeniana: «L’elegia di adolescenza aveva mormorato d’un giardino [orchard] d’amore e riparo [harbour]» (frase nella quale si affaccia anche il titolo della sezione, Elegie, che i versi di Auden introducono), da Fortini 1967a, p. 359 (corsivi miei). Il termine harbours assume in inglese, ancor più che in italiano, il senso figurato di “rifugio” e orchards vale proprio “orti”, “giardini”; cfr. AA.VV. 2003, ad voces.
[72] «Col dolce arrivo della primavera e del favonio, si dissolve l’aspro inverno».
[73] L’ultimo verso di vice veris riprende quasi letteralmente il già citato passaggio dell’articolo intitolato Questa terra che non dimentica (Fortini 1945c). Entrambi i testi – al contrario di E questo è il sonno…, che come visto è a sua volta legato a questo pezzo giornalistico – celebrano la definitiva messa in scacco delle astratte “immagini d’amore e morte” che avevano abitato l’immaginario del poeta fino a pochi anni prima.
[74] La lirica è uscita, con il titolo di Sei elegie brevi, su «Letteratura» (Lattes 1939d, p. 74). Ma nel passaggio dalla pubblicazione in rivista a quella in volume Fortini ha operato più nella direzione del rifacimento che della semplice revisione. Il testo, oltre ad assumere un nuovo titolo, che testimonia l’eliminazione di una delle sue sei parti, vede rimanere sostanzialmente immutata solo la prima elegia, mentre la seconda e la terza della versione in rivista sono state interamente soppresse; la quarta e la quinta – nonostante le profonde modifiche – sono ancora in parte riconoscibili, fuse in quella che in Foglio di via è la seconda elegia; la sesta, con alcune varianti è confluita nella quinta. Nella raccolta del ’46, quindi, delle sei elegie originarie ne sono sopravvissute sostanzialmente due. È stata soppressa anche la suddivisione in sezioni con i rispettivi titoli: nel testo uscito su «Letteratura» le sei elegie erano ripartite in tre sezioni, la prima, intitolata Infedeltà, formata da tre elegie, la seconda, Ignoranza, formata dalla quarta e della quinta elegia, la terza, Gli anni morti, dalla sesta elegia.
[75] Di Porto Civitanova, Di Maiano, Di Palestrina, Di Vallecrosia, Sulla via di Foligno, Tomba di Vetulonia, Della Sihltal.
[76] Sabbatino 1982, p. 22.
[77] Ivi, p. 24.
[78] Si potrebbero riferire a questa liriche le parole che Guido Mazzoni, sulla scorta delle osservazioni di Meyer H. Abrams, usa per definire la greater romantic lyric: «Nella grande lirica romantica un individuo determinato posto in un luogo determinato, dialogando con un interlocutore silenzioso, con se stesso o col paesaggio, scopre una verità profonda, prende una decisione morale, fronteggia una crisi interiore o rievoca una perdita tragica», in Mazzoni 2005, p. 14.
[79] Fortini 1998c, p. 511. In netto contrasto con la condizione di passività del periodo precedente la guerra, i testi bellici di Foglio di via, inseriti nella prima sezione, Gli Anni, sono per lo più proiettati sul futuro e impostati sul trapasso dall’oscurità alla luce: «ci fiorirà nella luce del sole | quel passo che in sonno si sogna» (Quando, p. 13, vv. 1-2). Tale energica rincorsa di un futuro luminoso contrapposto al presente di tenebra si ritrova, ad esempio, in Se Sperando (della quale si noti innanzitutto il titolo assai eloquente): «Se, sperando con te, dalle sere d’aprile verrà | la gioia delle estate fedeli | e un sole sui volti profondo» (p. 17, vv. 1-3). In Varsavia 1944 l’oscurità mortifera del «giardino d’amore e riparo» dell’adolescenza è stata ormai vinta dalla “bianca vendetta” della giustizia: «Giustizia è quella che nel poeta sorride | bianca vendetta di grazia sulla morte» (p. 23, vv. 9-10). È pur vero che anche in Elegie è già rintracciabile una qualche volontà di rinnovamento esistenziale, ma – passata quasi del tutto sotto silenzio l’esperienza della conversione religiosa, e cioè il motore ideologico che sostiene l’utopia del poeta a cavallo tra anni Trenta e Quaranta – nella seconda sezione di Foglio di via non rimane che una speranza senza oggetto, fugaci accenni a un ambiguo desiderio di emancipazione dalla tenebra esistenziale nella quale il poeta si sente immerso; accenni a tratti già contraddistinti da un’aspirazione alla luce in qualche modo paragonabile a quella dei testi di Gli anni, ma di matrice ancora astratta e decadente (si vedano, in particolare, Di Porto Civitanova, p. 48, vv. 26-31; Di Maiano, p. 50, vv. 26-28; Di Vallecrosia, p. 54, vv. 27-29).
[80] Nel 1940 Fortini si laurea in Lettere con una tesi su Rosso Fiorentino (relatore Mario Salmi). Come egli stesso afferma, quelli prebellici furono «anni di vocazione agli studi letterari ma anche di un’attenzione vivissima alle arti figurative, e soprattutto alla pittura», in Fortini 1993, p. 26. Per il rapporto del giovane Fortini con le arti figurative si veda Lenzini 1999c, pp. 19-28.
[81] «Credevo in Dio e nella divinità di Gesù Cristo nell’età in cui i miei coetanei perdevano, se mai l’avevano avuta, la fede cattolica. Ci credevo nelle forme esasperate della “teologia della crisi”, i miei autori erano Kierkegaard e Karl Barth», in Fortini 1967b, p. 431; cfr. Dalmas 1999, pp. 185-198 e Dalmas 2006.
[82] A giudicare da questi ultimi versi, sin dal ’43, data di composizione di Della Sihltal, la fede religiosa parrebbe presentarsi agli occhi del poeta come un «beato inganno»; ma, altrove, lo stesso Fortini ha affermato: «Da questo ambito di cultura religiosa sono uscito lentamente e senza traumi solo dopo la guerra», Fortini 1989, p. 560.
[83] Fortini 1978b, p. 232.
[84] Pasolini 1957, p. 108.
[85] Senza considerare gli articoli apparsi su rivista e non raccolti in volume, nel giro del decennio ’63-73 a firma Franco Fortini escono, in media, più di tre libri all’anno: oltre a quattordici traduzioni, si contano tre raccolte poetiche (Fortini 1963b; Fortini 1967a; Fortini 1969a), due libri di saggistica (Fortini 1965b; Fortini 1968), un libro di epigrammi e brevi prose (Fortini 1966b), due testi autobiografici (Fortini 1963a; Fortini 1967b), un romanzo (la seconda ed. [1972] di Fortini 1948), un manuale per le scuole (Fortini 1969b), tre sceneggiature (Fortini 1963c), un’antologia di ambito politico e sociologico (Fortini 1965c). Questa intensa stagione editoriale si chiude nel 1973, quando esce la fondamentale raccolta poetica intitolata Questo muro (Fortini 1973) e viene riproposto Dieci inverni (Fortini 1957).
[86] Lenzini 2003, pp. CXIV-CXV. Nella premessa alla ristampa di Dieci inverni Fortini ci offre un’ulteriore conferma della tardiva diffusione della sua fama di poeta e saggista, sottolineando, inoltre, come il momento culminante della sua affermazione si collochi proprio a cavallo del ’68: «Del libro non si vendettero, forse, che mille o duemila esemplari. Una buona metà delle copie stampate passò ai Remainders o al macero. Solo quattro o cinque anni dopo qualcuno, fra i giovani, dette segno di averlo inteso. Dopo aver letto Una volta per sempre e Verifica dei poteri, molti, fra 1967 e 1969, lo cercarono inutilmente», in Fortini 1957, p. 11.
[87] Sono espunte quattro delle Cinque elegie brevi, Tomba di Vetulonia, Di Vallecrosia e Della Sihltal; vengono inserite Militari, A un’operaia milanese, Basilea 1945, Manifesti, E guarderemo, Consigli al morto (E tu pregali), La gioia avvenire. La nota d’autore, qui più volta citata, che precede tale edizione è l’esemplare messa in pratica di un modus operandi abituale in Fortini, che grazie alla sua incomparabile coscienza critica svolge, a vent’anni di distanza dalla prima comparsa del libro, una brillante, quanto spregiudicata, analisi dei propri juvenilia. Ma se le parole e le indicazioni di ogni autore che si fa interprete di se stesso sono sempre “scivolosissime”, tanto più lo sono i suggerimenti di quell’abile auto-esegeta che Franco Fortini è stato.
[88] E non è un caso che Un giorno o l’altro (Fortini 2006), l’originalissima autobiografia intellettuale di Fortini, abbia il suo punto di partenza al di là del periodo fiorentino, nel 1945.
[89] Fortini 1948.
[90] Fortini 1969a, p. 363.
[91] Fortini 1946b, p. 54. Queste parole risultano particolarmente preziose per il fatto di essere assai prossime alla messa a punto della prima edizione di Foglio di via. Fortini tornerà ad affrontare questo tema in un articolo coevo (Fortini 1945d) e, a distanza di molti anni, in un passo del saggio dedicato al concetto di Classico, in Fortini 1987c, pp. 269-70.
[92] Turchetta 2004, p. 90.
[15 dicembre 2009]
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