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«E
questo è il sonno...». Temi, montaggio, figuralità
Felice Rappazzo
«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente, | |
quelle giovani carni! Era il ‘domani’, | |
era dell’‘avvenire’ il disperato gesto… | |
Al mio custode immaginario ancora osavo | |
5 | pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare |
di risvegliarmi nella santa viva selva. | |
Nessun vendicatore sorgerà, | |
l'ossa non parleranno e | |
non fiorirà il deserto. | |
10 | Diritte le zampette in posa di pietà, |
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi | |
lo implorano ancora levando alla luna | |
le griffe preumane. Sanno |
|
che ogni notte s’abbatte la civetta | |
15 | affaccendata e zitta. |
Tutta la creazione… | |
Carcerate nei regni dei graniti, tradite | |
a gemere fra argille e marne sperano | |
in uno sgorgo le vene delle acque. | |
20 | Tutta la creazione… |
Ma voi che altro di più non volete | |
se non sparire | |
e disfarvi, fermatevi. | |
Di bene un attimo ci fu. | |
25 | Una volta per sempre ci mosse. |
Non per l’onore degli antichi dèi, | |
né per il nostro ma difendeteci. | |
Tutto ormai è un urlo solo. | |
Anche questo silenzio e il sonno prossimo. | |
30 | Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941. |
«Non possiamo più, - ci disse, - ritirarci. | |
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava | |
Klockov. | |
Rivolgo col bastone le foglie dei viali. | |
35 | Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. |
Proteggete le nostre verità. |
Questa poesia di 36 versi (nostra la numerazione sul margine), priva di
titolo, conclude l’ultima raccolta di Franco Fortini,
Composita solvantur (1994); conclude anche la sezione
omonima, a dire il vero, ma in qualche modo staccandosi da essa. In
realtà nel volumetto compare anche una «Appendice
di light verses e imitazioni» non proprio breve
(contiene quattordici componimenti, alcuni dei quali notevoli per temi
e costruzione formale), ma, anche se l’indicazione
«Appendice» potrebbe essere ironicamente
fuorviante, è molto difficile considerare questo gruppo di
componimenti una sezione autonoma, per l’impiego del corsivo
nell’Indice a designarla, per la varietà dei temi,
e soprattutto per le indicazioni che troviamo proprio nel componimento
che ci apprestiamo ad analizzare. Esso rimanda infatti,
dichiaratamente, al primo componimento della prima raccolta del poeta,
ed allude quindi ad una specularità, ad una
circolarità, ad una chiusura simbolica
dell’attività poetica. Richiami tematici, e dunque
ancora circolarità, troviamo anche nel testo di apertura
della raccolta, posto quasi in esergo prima della sezione introduttiva,
«L’animale». Interamente in corsivo, esso
ha inizio coi versi: Per quanto cerchi di dividere/con voi
dal vero le parole; vi troviamo ancora l’allusione
alla verità (ma ad una verità che la poesia,
«le parole», non possono cogliere, che esse, anzi,
contribuiscono a distanziare, a separare), quasi in simmetria e in
opposizione con le parole ultime di E questo è il
sonno… Al tessuto intertestuale che meglio
vedremo se ne aggiunge dunque uno intratestuale, che appare fin da una
prima lettura molto cospicuo. Entro la sezione terminale, poi, che
conferisce il titolo alla intera raccolta («Composita
solvantur», appunto), il tema che domina e che si ripropone
in vari modi e motivi irraggiandosi per tutti i componimenti
è proprio quello della fine e della morte,
dell’eredità e della non
insostituibilità di ciascuno: i vari motivi sviluppano
insomma un unico tema con variazioni. In breve: già ad una
sommaria analisi, la poesia presenta una serie di rimandi e
riecheggiamenti allusivi che le conferiscono una posizione e un rango
di spicco nella raccolta e nella produzione di Fortini.
Soffermiamoci
su un altro aspetto, quello enunciativo e formale: la stesura del testo
è affidata ad un montaggio di strofe e di citazioni (come
vedremo meglio), per lo più in corsivo, e al corsivo,
appunto, si affida la soggettività del poeta-locutore; solo
due strofe e un segmento di verso sono in tondo: la voce esterna,
dell’oggettività, della lucida
razionalità storica, dell’Altro, della
“realtà”? Forse. Ma è
evidente, intanto, che proprio il montaggio
è la forma essenziale del componimento. Forse ne
è anche – nascostamente – il tema,
l’ipogramma latente. Esso rimanda infatti ad un dialogismo
agonistico e drammatico, ad un conflitto di voci e riflessioni,
all’alternarsi di momenti elegiaci e di asseverazioni
“forti”. La successione tondo/corsivo combinata con
la brusca giustapposizione tematica e con forti ellissi fra
l’una e l’altra delle strofette, sembra insomma
alludere, entro il rapporto fra riflessione e descrizione, a due voci
dialetticamente intrecciate, a una polifonia conflittuale, talvolta
narrativa, talaltra epigrammatica. La costruzione del testo si
configura così come una sorta di enigma, ossia come una
commistione di dati accertati o verificabili e di altri che appaiono
invece incerti e oscuri: dall’insieme di queste multiple
giustapposizioni scaturisce l’energia e il significato del
testo.
Anche
la versificazione, dal canto suo, contribuisce a tale dialogismo
agonistico. Si tratta di misure metriche spesso utilizzate da Fortini,
ma qui, più che altrove, inframmezzate da alterazioni di
ritmo, da spezzoni di enunciati, da rapide conversioni da un registro
espressivo ed enunciativo all’altro,
dall’irregolarità strofica: e non si sa se sia la
metrica a provocare tali torsioni enunciative o se non siano piuttosto
gli scossoni provocati nell’enunciato dalla successione,
apparentemente disordinata, dei motivi poetici, a produrre le
inarcature metriche. Per questo motivo, rinunciando ad una descrizione
sistematica degli aspetti metrici del testo, che non si allontanano da
quelli spesso osservati nel Fortini maturo1, mi
limiterò, qui, ad annotare la presenza, in esso (come del
resto in molti altri testi di Fortini), di una versificazione varia,
nella quale sono presenti allusioni a versi canonici e misure ritmiche
e metriche “libere”, accanto a due forme canoniche
principali: gli endecasillabi che segnaliamo ai vv. 2, 5, 7, 14, 19,
21, 26, 27, 36 (quest’ultimo, come il v. 7, tronco, mentre i
vv. 2 e 19 sono endecasillabi solo se vi leggiamo una sinalefe); e,
ancor più significativamente, parecchi versi derivati
dall’alessandrino, con misure che vanno dal dodecasillabo al
doppio settenario, tutti, o quasi, forniti di marcata cesura: 1, 3, 4,
6, 10, 12, 17, 18, 19, 29, 31, 32, 34, 35; in totale la versificazione
“canonica” (sebbene tutt’altro che
regolare e omogenea) raccoglie ventitrè versi, cui va
aggiunto anche qualche settenario: non poco per una forma aperta e
dinamica come quella che esaminiamo. Eppure la lettura delude
l’aspettativa della regolarità, come effetto,
certamente, dell’alternanza e varietà di forme e
del montaggio già segnalato.
Forma aperta, abbiamo detto:
ma fino a che punto ed entro quali limiti? Se guardiamo
all’aspetto metrico in senso stretto, certamente possiamo
ritenerla tale, data l’irregolarità strofica e la
varietà dei versi. Ma la questione va posta in modo
più complesso: è vero che Fortini predilige le
forme “chiuse”, anche se questa preferenza non
esclude che diversi suoi notevoli testi assumono morfologie dinamiche e
differenziate, “aperte” insomma; tuttavia in questo
campo non è possibile prescindere dagli aspetti tematici, o
– se si preferisce – dalla disposizione dei motivi
entro il testo. Se è vero che un enunciato articolato e
complesso come una poesia dà luogo ad un
“discorso” fondato su simmetrie ed asimmetrie, su
ellissi, su richiami e rimandi degli elementi tematici, tutto
ciò non può essere escluso
dall’apprezzamento e dalla definizione di una
“forma”. Perfino aspetti qui apparentemente caotici
come il montaggio e la sequenza dei versi risulteranno orientati
più alla costruzione coerente che alla sconnessione
testuale. Se assumiamo questo punto di vista, quello che valorizza,
insomma, la forma del contenuto, E questo è il
sonno… si dimostra una forma senz’altro
“chiusa” per la sua densità e
compattezza: è una osservazione che può essere
estesa a molti altri testi maturi di Fortini.
Si
tratta di annotazioni che qui intendo solo suggerire,
giacché una loro discussione abbisognerebbe di analisi che
si concentrino non su uno ma su una serie significativa di testi;
nell’ordine, su quelli della sezione, su quelli della
raccolta, senza escludere rimandi all’insieme
dell’opera poetica dello scrittore. Per quanto, a prima
vista, più varia, Composita solvantur
è raccolta che rivela compattezza non minore, poniamo,
rispetto a Questo muro. Ma lo
scopo di questo studio è procedere all’analisi dei
motivi poetici e delle allusioni tematiche presenti nel componimento,
seguendolo strofa per strofa; annotando preliminarmente che il contesto
simbolico e testuale di riferimento, esplicitamente richiamato
dall’autore, è, come avviene di frequente in
questa raccolta (ma anche altrove), quello del Purgatorio
dantesco2.
Ecco la prima strofe
del testo, dunque:
«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente, | |
quelle giovani carni! Era il ‘domani’, | |
era dell’‘avvenire’ il disperato gesto… | |
Al mio custode immaginario ancora osavo | |
5 | pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare |
di risvegliarmi nella santa viva selva. |
Ecco cosa scrive Fortini nella breve nota esplicativa (in realtà anch’essa piuttosto ellittica) che è posta a conclusione del volume e che, non certo a caso, è dedicata per un buon terzo proprio a questa poesia:
In corsivo e senza titolo come quello d’apertura, lo scritto che posto prima dell’appendice conclude la raccolta piuttosto che una sequenza di versi mi pare una epitome autobiografica: «E questo è il sonno» sono le prime parole del primo verso di Foglio di via, lo scrissi cinquant’anni fa, «custode immaginario» è quello, di mutevole identità, della poesia che qui s’intitola, appunto, Il custode. Una volta per sempre è titolo di una raccolta di versi del 1963. La selva è quella del già ricordato canto del Purgatorio. «Tutta la creazione [geme insieme e patisce doglie]» richiama un tormentato passo dell’Epistola ai Romani, 8,21.3
L’avvio
è nel complesso piano e narrativo. La prima strofe
è uno dei pochi luoghi per i quali la definizione di
«epitome autobiografica» sembra appropriata: degli
elementi che ritroviamo elencati nella nota, tre su sei sono
concentrati proprio in questa strofe (i riferimenti al verso iniziale,
alla selva, al custode). L’aspetto autobiografico, sebbene in
forma di «epitome», appare, nel testo, in forma
allusiva e “trascendentale”, anche se non certo
serena; e soprattutto si accompagna, come sempre in Fortini, alla
riflessione sul destino della specie umana, un destino qui
drammaticamente osservato sia sul versante storico, sia su quello
apocalittico. Si noti già che la figura del poeta, qui
«fatuo vecchio», è contrapposta a quella
vitale ma turbata dei «ragazzi mesti» che
chiuderanno la poesia: inizio e fine si toccano. La contrapposizione
fra vecchi e giovani, o fra vecchiaia e giovinezza, che disperatamente
vorrebbe ordinarsi a dialogo, incornicia insomma la materia poetica.
Avevamo letto, a tacer d’altro, in Questo muro,
il breve apologo
Il bambino che gioca, che chiude la sezione
«Il falso
vecchio»: in esso le parti del saggio, del narratore di
favole, e
quella dell’ascoltatore sono invertite: è il
vecchio ad
ascoltare ciò che il bambino ha da narrare, e il vecchio
ascolta
e riflette («Gli si facevano sicure e chiare/ cose che mai
aveva
capite»). Vedremo che la poesia che stiamo studiando
comprende
anche una ripresa e uno sviluppo di quel motivo poetico ormai antico;
ma le componenti specifiche dell’apologo sono incorniciate, e
in
qualche modo stravolte, dal contesto “narrativo” e
dalla
drammatizzazione del testo, che parte da uno spunto – lo dice
l’autore – autobiografico: la ripresa, fin dal
primo verso,
in autocitazione, della prima poesia della prima raccolta, allude
all’amore per il niente che avrebbe attratto il giovane poeta
cinquant’anni prima, condizione, peraltro, di una aspirazione
al
domani, all’avvenire: al compimento e alla
totalità,
insomma.
I
tre versi che concludono la strofe mostrano tuttavia un certo
cambiamento: alla rievocazione si sovrappone uno strato allegorico. Il
custode «di mutevole identità», ripreso
e trapiantato dall’omonima poesia di qualche anno precedente
(«pochi anni fa») è
anche segno e simbolo di una fede, di una speranza, o almeno di una
tensione costante, che avrebbero avuto la funzione di guida e di
protezione permanente per il giovane prima, per il maturo scrittore
poi: fedi e speranze sembrano oggi definitivamente tramontate, se il
poeta le ha attribuite a se stesso come «fatuo
vecchio». Fatuo proprio perché illusoriamente
persuaso di una insostituibilità dei propri valori e della
propria funzione, ci suggerisce la speculare strofa finale. Anche la
fine di tale processo ha colori a un tempo storici e metastorici:
allude allo spegnersi delle speranze di palingenesi sociale e
antropologica, ma anche ad amare riflessioni (di stampo decisamente
leopardiano) sulla infelicità e necessaria incompiutezza
della natura e del destino umani, che delle prime costituiscono la
condizione, forse, inevitabile.
Si noti la complessa e quasi contorta sintassi con cui si
accenna alla preghiera rivolta al custode: oltre ad alterare
l’andamento piano dei versi che precedono, questa ricercata
soluzione stilistica sembra sottolineare la ritualità, la
sacralità liturgica della preghiera stessa, calcata
com’è su un formulario arcaico e
sull’uso intransitivo di «pregare» che,
in latino, comporta propriamente il valore linguistico di
«rivolgere preghiere a qualcuno». Il risveglio
nella «santa viva selva» del Paradiso terrestre,
presentato come superamento del sonno protetto dal
custode-Virgilio, è anch’esso, a ben guardare, un
tentativo di mantenere uno stato di illusione, di oblio4.
Ma con la seconda strofe la variazione è repentina, nello
stile enunciativo e nei temi: si tratta della parte probabilmente
più complessa (e compressa) del testo, vera chiave di volta
dell’interpretazione, cui tutto il componimento finisce col
riferirsi:
Nessun vendicatore sorgerà, | |
l'ossa non parleranno e | |
non fiorirà il deserto. |
Il
racconto, quasi commemorante, con cui si avviava la prima strofe,
lascia qui il passo ad una brusca asserzione percussiva, imperniata su
una triplice negazione. L’uso del carattere tondo ci richiama
ad una diversa attenzione. La voce impersonale, perentoria, che
annuncia tre dure verità, sembra essere ispirata ad un
rigido, sadico principio di realtà. È il cuore
del componimento: la brevità non può nascondere a
lungo la densità di pensiero della terzina, il reticolo dei
riferimenti culturali, che danno spessore a un passo che, da solo,
risulta sufficientemente chiaro (non c’è da
sperare in alcuna redenzione o soluzione millenaristica), ma anche
relativamente povero. È,
questo, uno dei casi in cui il testo va letto soprattutto attraverso
l’ipotesto: questione complessa e anche contraddittoria, in
Fortini. Qui, accenno solo alle linee che mi sembrano più
appropriate: l’intertesto o – per essere
più precisi – l’insieme dei suoi
ipotesti, vale soprattutto, in lui, come
«interpretante»: ossia, per utilizzare il lessico
di Michael Riffaterre (ma senza condividere la prospettiva semiologica
e antireferenziale che gli è propria), come uno di quei
«testi di mediazione che vengono citati in una poesia o da
essi soltanto allusi»5.
L’ipotesto è, in sintesi, uno
strumento di tematizzazione, che allude a contesti culturali prima che
poetici, a valori e – non da ultimo – a linguaggi.
Guardiamo, dunque, analiticamente alla strofetta. «Nessun
vendicatore sorgerà»: il verso, un endecasillabo
tronco, coincide con l’enunciato nella sua compiutezza: ne
riconosciamo agevolmente la fonte, non a caso tramandata anche nella
pratica scolastica; è un celebre verso di Virgilio (Eneide,
IV, 625), che così suona: Exoriare aliquis meis ex
ossibus ultor. Abbandonata da Enea, Didone prepara un tragico
e indispettito suicidio e invita un suo imprecisato discendente, del
cui futuro sopravvenire è peraltro certa, a risarcire il suo
sacrificio: il verbo exoriare va inteso infatti in
senso esortativo («sorgi»,
«rinasci», troviamo infatti in molte traduzioni
moderne): è noto che Virgilio alludeva ad Annibale, preteso
ideale discendente di Didone. Conosciamo anche la ripresa di questo
verso in una pagina di
Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, che ha
rinnovato e allargato la ricezione dell’episodio per il
pubblico moderno dei lettori6. Il
«vendicatore» che non
sorgerà sembra legarsi, sul piano testuale, ancora al
«custode immaginario» del v. 4:
l’esile speranza racchiusa in quella figura viene spazzata
via. Non ci sarà risarcimento al male storico e naturale,
né sul piano sociale né su quello antropologico
né su quello religioso. Il vendicatore è un
redentore che mai verrà. Né l’uomo
saprà redimersi attraverso la lotta di classe, attraverso il
compimento del suo essere sociale. Il significato non
abiterà il mondo. Il valore figurale e apocalittico del
verso non potrebbe essere più netto.
Tuttavia questo motivo ricorre due volte ancora nei due
versi
successivi, costituendo così un elemento sovradeterminante.
Innanzi tutto un’osservazione sul piano metrico, che ha un
rilievo anche sul piano interpretativo: si tratterebbe di due
settenari, se la congiunzione «e», che chiude il
secondo,
in forte dialefe, non provocasse una marcata anomalia ritmica e metrica
al secondo verso; essa, inoltre, impedisce la sequenza asindetica delle
tre negazioni, e, in tal modo, sembra collegare concettualmente i
motivi e le allusioni presenti nel secondo e terzo verso.
L’ipotesto, a sua volta, rafforza questa ipotesi.
«L’ossa
non parleranno», infatti: nel verso virgiliano troviamo
già la parola «ossa», ossia le spoglie,
che sono tuttavia anche luogo e fonte di rinascita (quella di un
vendicatore): la morte sacrificale di Didone lo genererebbe.
Sembrerebbe un rafforzamento del concetto appena esposto; tuttavia il
valore di questo enunciato si mantiene parziale. Un arricchimento e un
compimento può prodursi se accettiamo come
“fonte” ulteriore un passo biblico che si
sovrappone all’ipotesto virgiliano,: un brano – di
impressionante visionarietà e forza rappresentativa
– di Ezechiele (37, 1-14). In esso al profeta viene ordinato
da Dio di vaticinare su un grande cumulo di ossa inaridite, che
ricoprono una pianura, affinché riprendano carne e nervi e
rivivano. Citiamo il brano nella sua integralità:
La
mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori
in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece
passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in
grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte
inaridite. Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno
queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio,
tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza
su queste ossa e annunzia loro: ossa inaridite, udite la parola del
Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in
voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e
farò crescere su di voi la carne, su di voi
stenderò lo spirito e rivivrete: saprete che io sono il
Signore». Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre
io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che
si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo
corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne
cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era lo spirito in
loro. Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza
figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore
Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti,
perché rivivano». Io profetizzai come mi aveva
comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e
si alzarono in piedi; erano un esercitò grande, sterminato.
Mi disse: «Figlio
dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente
d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: le nostre ossa sono
inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti.
Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio:
Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o
popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele.
Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le
vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo
mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi
farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il
Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo
del Signore Dio7.
Non
troviamo qui a rigore, né alla lettera né in
metafora, ossa o corpi parlanti, ma solo un processo che, alla fine,
porta al ricostituirsi dello spirito nei morti che così
rivivono. Il passo del profeta non nasconde, anzi esibisce, il suo
valore parabolico. Se esso agisce nella memoria poetica (e, a maggior
ragione, se Fortini lo tiene in voluta considerazione), tale valore
parabolico si trasferisce al testo, conferendogli tuttavia un ulteriore
strato allegorico. Le ossa – popolo d’Israele che
rivive – sono qui diventate il luogo topico e
l’emblema della memoria e dell’eredità:
rovesciando nel testo della poesia, con la negazione, quel che leggiamo
nel passo di Ezechiele, memoria e eredità non rivivono,
restano mute dinnanzi a chi, forse, ne attende un vaticinio, un
messaggio. Il tema del rapporto fra generazioni (dal passato al
presente, dal presente al futuro) comincia a delinearsi in questi versi
per diventare uno dei principali di questo testo.
Il senso ci è dunque sufficientemente chiaro:
dai morti, dai padri (quindi da chi detiene memoria e da chi
può trasmettere un patrimonio di saperi e valori) non
c’è nulla da aspettarsi. Non
c’è trasmissione dal passato come non
c’è speranza di redenzione nel futuro; e se non si
può attendere nessuna redenzione è chiaro che
– come conclude il verso successivo –
«non fiorirà il deserto».
Anche
quest’ultimo verso ha una fonte biblica e profetica, questa
volta molto più diretta e, ancora una volta, rovesciata in
una negazione. È un passo di Isaia, dal quale riprendiamo i
tratti salienti (35, 1-2 e 5-7):
Si rallegrino il deserto e la terra arida | |
esulti e fiorisca la steppa. | |
Come fiore di narciso fiorisca; | |
sì, canti con gioia e con giubilo. | |
… | |
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi | |
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. | |
Allora lo zoppo salterà come un cervo, | |
griderà di gioia la lingua del muto, | |
perché scaturiranno acque nel deserto, | |
scorreranno torrenti nella steppa. | |
La terra bruciata diventerà una palude, | |
il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua. | |
I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli | |
diventeranno canneti e giuncaie8. |
Anche questa seconda
“fonte”, molto probabile (certamente più
diretta di quella che precede), si limita a irrobustire
l’insieme dei riferimenti culturali dai quali si genera il
testo poetico: esso, insomma, è comprensibile anche senza
riferimenti ipotestuali; comprensibile, ma meno ricco, deprivato di
profondità. L’arricchimento che ne consegue non
è, peraltro, una semplice risonanza; esso ci aiuta ad
affrontare un altro problema, quello della recisa negazione del valore
utopico che la forma dell’enunciato fortiniano ancora una
volta presenta. il deserto «non
fiorirà», ci dice il testo; ma
l’ipotesto ci presenta poi una ricca e molteplice serie di
immagini di rinascita e riviviscenza. Possiamo perciò
pensare ad una negazione “freudiana”, naturalmente
voluta e costruita dall’autore? Come in altri casi, mi sembra
opportuno rispondere, contemporaneamente, no e sì. No,
perché Fortini è autore troppo consapevole,
psicologicamente e intellettualmente, per poter perseguire il gioco
facile del rovesciamento della negazione o per rimanerne soggiogato;
sì, per la costitutiva ambivalenza, anch’essa ben
padroneggiata dallo scrittore, del testo poetico. E tuttavia da Freud
viene un suggerimento interpretativo più raffinato e
complesso di che quello cui si potrebbe attingere meccanicamente dalla
abusata forma della negazione. Proprio nelle pagine che concludono
l’analisi del lapsus sopra citato, Freud osserva che questo
comporta un «meccanismo di dimenticanza, cioè la
perturbazione di un pensiero ad opera di una contraddizione interna
proveniente dal rimosso»9. La forma retorica comprende infatti una
condizione di dubbio, una oscillazione continua fra pessimismo e
volontarismo: una «perturbazione», dunque, una
contraddizione interna, piuttosto che una
“semplice” negazione, un rovesciamento di valore
dell’enunciato. Nessuna redenzione è possibile,
certo, fidarsene è illusorio. Ma la storia non è
finita, e prende strade imprevedibili. L’antico lettore e
traduttore del Faust sa che al genere umano non si
prospetta, escatologicamente, una salvezza definitiva, neanche in
versione mondana; ma che una strada per la trasmissione
dell’esperienza (per la sua trasmissibilità)
esiste sempre.
L’ipotesto
biblico è dunque presente (a mio avviso tale presenza
è indiscutibile) non solo per la ricchezza e la
densità testuale che esso suggerisce e per l’alta
figuralità che il verso di Fortini richiama, ma anche
perché consente al lettore di percepire un vertiginoso
spaccato storico, nel quale le stesse cose ritornano. Il testo biblico
è dunque attualizzato: non nel senso che esso presenti una
perenne verità o almeno una verità di lunga
durata dalla quale prelevare brandelli ancor oggi vivi; ma, al
contrario, perché il presente interroga il passato e in esso
s’inscrive, cogliendone forme e modelli. Così del
resto aveva fatto uno degli ispiratori di Fortini, Bertolt Brecht,
quando – per fare un esempio –
“traduce” l’Antigone
di Sofocle trasportandone il prologo negli anni del nazismo: non un
semplice adattamento, ma un modo diretto per dichiarare che il presente
interroga il passato e che nei suoi sedimenti si inscrive: violenza e
sopraffazione sono una antica storia, eppure ogni volta nuova.
Da
notare è ancora l’efficacia della specifica
modalità dell’enunciato, che assume la forma del kerygma,
dell’annuncio, dell’oracolo e, secondo la proposta
di N. Frye, del mito:
kerygma, sostiene lo studioso canadese, è una
sorta di “retorica di Dio»,
«cronologicamente anteriore al linguaggio
metaforico» e «veicolo di ciò che viene
tradizionalmente chiamato rivelazione»10;
la forma dell’enunciazione interferisce inoltre con
l’intertesto biblico e virgiliano. Nel modo enunciativo, per
di più, va posta la debita attenzione al rapporto
fra il martellamento asseverativo (nel ritmo e nella
brevità) e la forma negativa che esso assume; strettissima
è inoltre, come abbiamo visto, la connessione fra forma
negativa e tema dell’enunciato stesso.
Proseguiamo
nella lettura:
10 | Diritte le zampette in posa di pietà, |
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi | |
lo implorano ancora levando alla luna | |
le griffe preumane. Sanno |
|
che ogni notte s’abbatte la civetta | |
15 | affaccendata e zitta. |
Tutta la creazione… | |
Carcerate nei regni dei graniti, tradite | |
a gemere fra argille e marne sperano | |
in uno sgorgo le vene delle acque. | |
20 | Tutta la creazione… |
Troviamo evocato e descritto in questa strofe (divisa a
sua volta in due parti inframmezzate dall’enunciato
«Tutta la creazione…») un duplice
sommovimento, un duplice dramma naturale, percepito dapprima nel mondo
animale e poi in quello geologico e minerale. Si tratta, non pare
esserci dubbio, di una trasposizione allegorica del disordine umano. Le
immagini provengono dal mondo morale e
«dall’immaginario sociale dell’epoca
premoderna»11, dove sono radicate.
Ordine sociale e ordine cosmico si scambiano le parti.
«È da questa visione che trae origine
l’idea che i disordini che avvengono nella sfera umana hanno
un’eco nella natura, in quanto è
l’ordine stesso delle cose a essere minacciato»12;
ma qui la rappresentazione è forse più
stringente, in quanto essa è «figurale»
nel senso specifico che Fortini riprende da Auerbach, condivide e
spesso ripropone: tale rappresentazione, infatti, mantiene viva la
lettera e dunque il valore istoriale dell’immagine, mentre
allude anche a uno spazio altro, allegorico appunto.
Torniamo al testo:
la prima parte della strofe mette in scena due figure animali opposte,
quella della preda e quella del predatore. I «ghiri
gentili dei boschi» implorano, in una postura quasi
di vana preghiera («lo implorano ancora»),
l’avvento di quel vendicatore (liberatore? salvatore?) che
– come abbiamo visto – non verrà; i
ghiri hanno gli atti e gli aspetti della vittima,
dell’animale sacrificale, immolato alla garanzia di uno
spietato ordine cosmico; il linguaggio che li connota («zampette»,
«posa di pietà»,
gentilezza) ne accentua i tratti di debolezza e, quasi, la
predestinazione. D’altro canto essi levano anche al cielo
«le griffe preumane»; e
troviamo, in questa facies, l’elemento
dell’incompiutezza, del bozzolo, della natura ancora non
naturata (non del tutto pervenuta a compimento), che Fortini
ricava da Kafka e che si rivela un motivo segreto della sua poesia13.
La civetta «affaccendata e zitta»,
è evidentemente un inquietante e minaccioso uccello di
morte, se ricordiamo che proprio così la chiama Brecht in un
testo che Fortini aveva tradotto: Primavera 1938,
dalla Raccolta Steffin: citiamo per intero la terza
e conclusiva sezione
Dai salici lungo il Sund | |
in queste notti di primavera chiama spesso la civetta. | |
Secondo la superstizione contadina | |
la civetta informa gli uomini | |
che non vivranno a lungo. A me | |
che so di avere detto la verità | |
su chi comanda, l’uccello di morte | |
non c’è bisogno che m’informi14. |
La civetta suggerisce e minaccia morte ai «ghiri
gentili», figura della vittima predestinata e innocente; ma,
nel testo di Fortini, essa sembra obbedire, più che a un
istinto sadico, a una implacabile necessità, dalla quale
essa stessa è trascinata: figura
“leopardiana”, certo, del mondo naturale, ma anche,
probabilmente, della modernità, efficiente e anonima, che al
premoderno, e preumano, così come alla dimensione creaturale
dell’umano, si oppone operosa indifferente e cinica.
«La violenza storica è tanto più
devastante quanto più la Storia è un Dio
nascosto», ha osservato Mengaldo15.
Qui il Dio nascosto è tanto la Storia quanto la Natura. I
due animali qui raffigurati, non certo isolati nella poesia di Fortini16,
discendono da quel campo vasto degli animali guida che, fin dai
millenni remoti della civiltà della caccia, hanno popolato
l’immaginario sociale, consentendo
all’umanità, è stato scritto,
«l’attraversamento di una frontiera
ontologica»17; da questo rapporto
«nacque la prima riflessione dell’uomo
sull’essere e sul mondo, una riflessione che gli animali
hanno sorretto e sostanziato con la loro conturbante
alterità, ma anche con la loro affinità, ancor
più conturbante.[…] Questa cultura, che con una
punta di disprezzo l’etnologia ha un tempo chiamato totemica,
e che si può forse più propriamente definire
animalistica, è ormai irrimediabilmente spenta: un campo di
mute rovine, appunto, o una foresta di pietra. Ma queste rovine petrose
sono dense di significati dimenticati, e ci tramandano ancora una
dispersa galassia di segni arcani, indecifrabili, ma pregni di
senso»18.
Il mitologema resta dunque «un organismo vivente
[…] che può essere di volta in volta rielaborato
e riadattato alle singole occasioni»19.
In tale arcaica cultura si rivela fra l’altro la
reciprocità del rapporto predatore/preda; in essa
«sembrano essere in gioco due ruoli,
quello del predatore e quello della preda, che non solo sono
complementari, ma si implicano l’un
l’altro»; il lettore s’identifica, forse
del tutto, con la preda/vittima20. Tuttavia la
poesia ha anche l’effetto di far rivivere il denso
significato delle «rovine petrose» nella sua ricca
dialettica.
L’emistichio che segue, in tondo,
«Tutta la creazione…», non è
un’allusione intertestuale, ma una vera e propria citazione
monca, “istituzionale”, essenziale alla
comprensione del passo e del testo nel suo complesso. La connessione,
la specularità fra l’aspettativa umana e quella
della «creazione» ne sono il tema: come i figli di
Dio aspettano con ansia la rivelazione, così la creatura
tutta aspetta perennemente una redenzione. L’importanza del
passo è confermata da una delle scarne note al testo, che lo
completa e lo commenta brevemente: «”Tutta la
creazione [geme insieme e patisce doglie]” richiama un
tormentato passo dell’Epistola ai Romani, 8,21»21.
La citazione chiosa la prima parte della strofe e introduce al tempo
stesso alla seconda, che ne amplia il tema e la ripropone nel suo
ultimo verso. Vediamola per un tratto leggermente più ampio,
nel testo della Vulgata:
Nam expectatio creaturae revelationem filiorum Dei expectat […] Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc/ non solum autem illa//sed et nos ipsi primitias Spiritus habentes/ et ipsi intra nos gemimus/ adoptionem filiorum expectantes redemptionem corporis nostri//Spe enim salvi facti sumus.22
Ma perché Fortini definisce «tormentato» questo passo? Certo per la sua drammaticità e per il conflitto che si intravvede nel testo paolino; ma probabilmente egli ha in mente anche la tradizione esegetica, e in particolare il lungo e veramente “tormentato” commento che Karl Barth conduce sulla Epistola ai Romani; l’uno e l’altra, com’è noto, fra le letture costanti di Fortini, soprattutto al tempo della sua formazione. Ecco dunque il commento del teologo svizzero che ritroviamo al breve passo paolino cui la poesia accenna, passo che – se ben si guarda al rincorrersi dei suoi motivi interni – sembra costituire quasi il terreno di radicamento ideale dell’intero componimento fortiniano, combinazione di pessimismo esistenziale e di escatologia:
Che
cosa sappiamo? Sappiamo che dobbiamo tacere davanti a Dio. Sappiamo che
quando parliamo della gloria di Dio, parliamo di un futuro che non
sarà mai tempo. “Noi sappiamo che tutto
il creato ad una voce geme ed è in travaglio fino ad ora.”
Tutto il creato, anche quello occulto, nascosto e perciò
difficilmente accessibile alla nostra conoscenza! Si tratta qui della
conoscenza della nostra conoscenza, non della sua diffusione e
divulgazione! Noi sappiamo che quel che conosciamo o conosceremo
è una cosa
“gemente,” “in travaglio,”
separata dalla sua origine, una cosa relativa separata abissalmente
dall’assoluto. Poiché in quanto conosciamo qualche
cosa, la conosciamo appunto come cosa, come relativa, E appunto questo
è la sua creaturalità. E appunto questa sua
creaturalità è la causa del suo
“gemito”, del suo “travaglio”.
Noi sappiamo che ogni cosa creata, che è nel tempo (e non
sappiamo nulla di ciò che non è creato e nel
tempo), porta in sé il suo essere eterno come un eterno
futuro non nato, che vorrebbe partorire – e che nel tempo non
partorirà mai. Noi conosciamo
l’universalità, l’unanimità,
la comunanza di questa distretta piena di speranza, di questa speranza
piena di distretta23.
Posto strategicamente al centro di una strofe, a
raccordare e separare al tempo stesso due elementi della
«creazione», questo enunciato paolino richiama
dunque al lettore, attraverso il percorso a ritroso di testi cruciali
per la formazione di Fortini, un tema in lui quasi ossessivo: Barth
chiama «futuro che non sarà mai tempo»
questo processo di perpetue doglie della natura; Fortini rimanda in
molti testi poetici e politici all’idea di una tensione che
tuttavia produce perennemente un non-compimento,
l’impossibilità della pienezza, la
precarietà del significato come
“destino” dell’uomo: a partire dalla non
inevitabilità del socialismo o dall’idea del
comunismo come battaglia per la sua realizzazione, non come
raggiungibile compiutezza. Le componenti escatologiche, di radice
biblica e poetica, rivelano la loro persistenza anche oltre il loro
momento genetico, in una versione esistenziale e mondana, ma non
sciattamente secolarizzata. La poesia rivela così la sua
forza di rappresentare e tematizzare mediante figure e allegorie,
mediante il suo alimento dalle vene profonde dell’immaginario.
Questo «gemere» della creazione,
questo perenne «patir doglie», pur senza parto,
è riconfermato – siamo alla seconda parte della
strofe – in un altro ambito naturale, quello minerale e
inanimato delle acque e delle sorgenti. Il verbo
«gemere» è non a caso ripreso
dall’ipotesto e l’atto che esso designa, attribuito
alle acque «tradite» (ossia,
possiamo intendere, distratte forzatamente dal loro fine, che
è quello dello sgorgare), riprende ancora
l’immagine figurale delle doglie di un parto che non avviene
ma che si annuncia vanamente di istante in istante. Qui
l’altro ipotesto, neanche tanto nascosto, è il
Dante delle Rime, ammirato e amato fin dai tempi
del «Politecnico», e precisamente quello della
petrosa I’ sono giunto al punto de la rota.
Citiamo i vv. 53-55: «Versan le vene le fummifere acque/ per
li vapor che la terra ha nel ventre/ che d’abisso le tira
suso in alto». In Dante dunque le acque imprigionate hanno
uno sfogo, sia pure nel rigido paesaggio invernale; in Composita
solvantur Fortini ha già utilizzato
l’immagine delle acque costrette nella «condotta
forzata» in La salita, (e,
già prima, essa era apparsa anche in Deducant te
angeli, in Questo muro): qui la condotta,
immagine di un lavoro umano necessario ma cieco, opposto al
lavorìo della natura, ma anche, in esso, integrato, portava
le acque al deflusso «nella utilità»;
nell’ultimo componimento, invece, il poeta presenta le acque
come «carcerate» e compresse perennemente fra gli
strati della terra: siamo appunto nel campo semantico definito dalla
citazione paolina appena considerata. Lo «sgorgo»
è qui affidato (e ancora una volta ritorniamo al testo
neotestamentario citato) alla sola speranza: è una
possibilità, una tensione, non una certezza. L’esito escatologico non
è solo incerto: appare quasi impossibile e strozzato. Natura
e storia si oppongono e si ricongiungono, ancora, quasi in circolo.
Ma voi che altro di più non volete | |
se non sparire | |
e disfarvi, fermatevi. | |
Di bene un attimo ci fu. | |
25 | Una volta per sempre ci mosse. |
Non per l’onore degli antichi dèi, | |
né per il nostro ma difendeteci. | |
Tutto ormai è un urlo solo. | |
Anche questo silenzio e il sonno prossimo. |
Questa
strofe esibisce uno scarto tematico molto vistoso rispetto a quello che
il componimento aveva finora offerto. Del resto un testo fondato
proprio sul montaggio, prevede anche la marcata eterogeneità
dei materiali che lo compongono. Qui si passa dunque, inizialmente, da
temi escatologici e figurali ad altri, sociali e politici,
più legati dunque all’urgenza della cronaca; poi
si torna a tematiche, per così dire, esistenziali.
Parallelamente accade, sul piano dell’enunciazione, che in
questa sequenza di versi si attenui di molto la percussività
ritmica: l’enunciato è quello tipico di una
invocazione, di una preghiera, quasi di un lamento soffocato. E
tuttavia anche questi ultimi passi assumono ben presto, sia nello
scorrere dei versi, sia nel riflesso interpretativo che consegue, uno
spessore drammatico del tutto coerente con l’insieme.
A
chi è rivolta l’allocuzione di Fortini,
così precisa e diretta con quel «voi»
iniziale? Credo che si tratti, al tempo stesso, di un interlocutore
generale o, meglio ancora, indeterminato, e di uno più
precisamente individuabile. Il destinatario indeterminato è
chiunque voglia ormai solo «sparire» e
«disfarsi», che, insomma, sia
vinto da orientamenti scettici e forse anche da cinico pessimismo o da
opportunismo; chiunque, insomma, dalla storia e dal perenne conflitto
umano, non si aspetta nulla, nessun cambiamento, nessuna
trasformazione, nessuna soluzione escatologica, a maggior ragione. Il
destinatario specifico è probabilmente
quell’universo nichilistico di intellettuali (epifenomeno di
una sconfitta storica del sogno di liberazione dell’uomo),
con cui Fortini ha lungamente polemizzato fin dagli anni settanta. Per
questi intellettuali, avanguardia, a dire il vero, di un ampio ceto
colto o semicolto del tutto investito dal «surrealismo di
massa», la realtà si presenta «come
deprivata di essenza»24. Fortini
sembra alludere insomma anche a precisi circoli e a precisi
interlocutori, e, per quanto la forma poetica tenda, ovviamente, a
generalizzare e a sfumare, questi versi assumono un valore anche
“politico” e antropologico25.
Ebbene
questi destinatari, cui la voce del poeta si rivolge con una
modalità patetica (che, si noti, in Fortini è
fatto rarissimo e per lo più ironico), potrebbero avere
ragione: non aveva forse il testo dichiarato seccamente, poco sopra,
«nessun vendicatore sorgerà», con quel
che segue? Non ruotava forse attorno a questo nucleo concettuale
l’insieme del testo, fino ad ora? Se dunque non
c’è da riporre speranza in alcuna redenzione,
perché mai non sparire e disfarsi? Come accettare e
legittimare l’aggressività e il sarcasmo del
saggista contro il nichilismo degli altri (già stigmatizzato
come proprio errore giovanile, da quanto abbiamo appreso), se il poeta
stesso non mostra che un universo irredimibile, natura e storia
perturbate e distrutte? Eppure qui troviamo tale dialettica, e il testo
sembra muoversi piuttosto verso una ascensione, dopo che la prima parte
aveva crudelmente presentato una sorta di catabasi spirituale:
«Di bene un attimo ci fu./ Una volta per sempre ci
mosse». I due versi in successione, che nel ritmo
antilirico del novenario tronco e del decasillabo ripropongono
l’asseveratività del kérygma,
già sperimentato nella seconda strofetta, ricercano e
ritrovano, a ritroso, un momento positivo della storia individuale e
sociale, nel quale il bene e la volontà sembravano aver
avuto una parte infine decisiva, se non il sopravvento. Qui
l’enunciato «una volta per sempre», che
riprende il titolo assunto dalla raccolta poetica di Fortini (anzi dal
volume che ripropone l’insieme delle raccolte che precedono Paesaggio
con serpente; e che ritorna, più pianamente
altrove, ancora in Composita solvantur)26,
allude, evidentemente, a un percorso umano e poetico. Ma
l’interpretazione ne è forse più
complessa: «per sempre» è il sintagma
centrale, che vale qui, a mio avviso, come in tedesco
l’espressione «fur ewig».
Una volta (un impulso, una scelta, un atto di volontà) ci
mosse per il futuro, irreversibilmente; ed è questo scatto
verso il futuro, utopistico ed escatologico al tempo stesso che
creaturale e sociale, che redime storia e natura. Troviamo in questo
passo ancora l’influsso etico di Kierkegaard, che tanto ha
già segnato Fortini. Dunque si possono pregare quanti hanno
desistito, per debolezza e stanchezza, dallo sforzo verso il
compimento, dalla ricerca della totalità, di fermarsi nel
loro processo di autodissoluzione. Ad essi (ormai indicati quasi come
“figure” dantesche, non come gruppi sociali) ci si
rivolge con una imprevedibile preghiera: «ma
difendeteci». Proprio costoro possono dunque,
paradossalmente, difendere dall’insensatezza che incombe chi,
allo stremo delle forze, può solo gridare un messaggio con
voce strozzata: non in nome di antiche fedi (religione, marxismo, arte,
cultura: poco importa quali e quante) né in nome di una
presunta integrità individuale, che qui sembra
un’empietà. La lotta, la vita stessa, è
un atto collettivo, nel quale non è lecito respingere alcuno
dei deboli, degli erranti o degli sconfitti.
La
poesia muove così verso le strofe finali, ma i due ultimi
versi qui riportati aggiungono un elemento, una variante, qualcosa di
diverso. Tutto ormai è un urlo solo:
ancora una citazione monca e strozzata, ma quanto mai significativa. Si
percepisce senza difficoltà un fondo drammatico, ma la
“fonte”, un verso di Montale, consente un
ampliamento e anche un approfondimento di orizzonti:
«[…] è un urlo solo, un muglio/di
scerpate esistenze», scrive il poeta ligure in Tramontana,
secondo momento del trittico «L’agave su lo
scoglio»27. In Montale la violenza del
vento apre allegoricamente a un paesaggio esistenziale frantumato;
Fortini si avvale del precedente montaliano per alludere anche ad
altro. Anche questo silenzio e il sonno prossimo,
infatti, è l’enunciato immediatamente successivo,
che prende avvio e spunto dal momento esistenziale e personale del
poeta (il silenzio e il sonno della morte, comunque si voglia ampliare
il campo, sono elementi irriducibili) per riportare il violento caos
(il «muglio di scerpate esistenze») ad un piano di
dramma storico e, di nuovo, apocalittico. Ancora una volta il rapporto
scambievole e reversibile fra il piano pubblico e quello privato, fra
la storia e il destino dell’individuo, sono tema e momento
genetico della poesia di Fortini.
30 | Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941. |
«Non possiamo più, - ci disse, - ritirarci. | |
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava | |
Klockov. |
Ancora un brusco effetto di montaggio, una violenta
giustapposizione tematica, un secco scarto, stilistico e
“tonale”, in questa breve strofe, rispetto a quanto
precede. Un enunciato, al primo verso di questa, praticamente
impronunciabile secondo una qualsiasi ritmica del verso,
prosastico eppur marcato in una sequenza scandita; poi due versi che
alludono all’alessandrino (un quinario più
settenario, con cesura, il primo dei due; un ottonario più
quadrisillabo, il secondo); e infine un verso bisillabo molto marcato
simbolicamente, coincidendo l’unica parola di cui
è composto col nome di un personaggio storico: si tratta (ci
ricorda la nota dell’autore) di quel commissario politico
Klockov che resistette eroicamente fino alla morte, assieme ad altri
pochi, all’esercito tedesco che avanzava verso Mosca, nei
dintorni della capitale. Fortini riprende le frasi a lui attribuite:
«La Russia è grande ma non abbiamo più
dove ritirarci perché dietro di noi c’è
Mosca»28. E la strofe allude proprio
alla condizione di estrema difficoltà e
necessità, alla situazione irrimediabile di un momento
catastrofico, di una assenza di una sia pur labile protezione:
allegoria di una condizione esistenziale e storica, individuale e
collettiva – ancora una volta. Klockov parla ai suoi: ma il
testo recita, in un inciso: «- ci disse»; dunque la
frase dovrebbe essere riportata da qualcuno dei sopravvissuti; ma forse
egli parla a noi, a tutti i lettori, qui e ora. Non
l’eroismo, dunque, ma la condizione estrema della
irredimibile durezza del vivere e lottare, è il motivo
poetico di questa strofe, e la sua permanente attualità: la
resistenza estrema lungo la Volokolàmskaja
Chaussée, è stato osservato, è
«una battaglia campale, orgogliosa e disperata – ma
anche un punto di svolta, un’inversione di rotta.
[…] Il tempo storico, e con esso la figura di un sacrificio,
doveva suggellare l’ultimo atto della vicenda poetica di
Fortini»29. Sul finire del testo si
conferma e si rafforza così, più rilevato di
prima, quel procedimento stilistico-formale che abbiamo già
notato: il montaggio e l’effetto espressionistico che ne
consegue, creato dallo stridere delle parti ellittiche e percussive
(come questa, che si collega anche per la scelta del carattere tondo
alla strofe «Nessun vendicatore sorgerà
…») con quelle dotate di maggior distensione
“lirica” e soggettiva. Anche sul piano tematico,
del resto, assistiamo ad una costruzione che procede secondo contrasti:
non i disperati “nichilisti” della strofe
precedente, ma i “resistenti”, forse non meno ma
diversamente disperati, ne sono i protagonisti. Due poli opposti, ma
convergenti, di un desolato paesaggio storico. Lo spessore allegorico
che è proprio di tutta la raccolta assume qui, in tal modo,
una complessità maggiore e più stratificata,
quasi modernisticamente, rispetto ad altri testi della stessa raccolta,
non meno ardui ma più compatti e chiusi (come quelli della
sezione «L’animale», ad esempio).
Tuttavia il testo non finisce qui:
Rivolgo col bastone le foglie dei viali. | |
35 | Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. |
Proteggete le nostre verità. |
È
questa terzina la conclusione del testo, una conclusione che, per
quanto apparentemente distesa, risulta non meno complessa ed enigmatica
di altre parti. Inoltre essa si rivela il filo conduttore,
l’esito necessario del discorso morale che Fortini conduce
lungo il componimento, e si raccorda, per vari fili,
all’insieme e a tutte le sue parti: e, in modo specifico,
alla prima e – soprattutto – alla seconda strofe.
La poesia dimostra così, nel suo concludersi – se
mai occorresse – di essere tutt’altro che
l’accostamento di momenti diversi, di spunti separati.
L’emergere dei vari quadri rimanda sempre, infatti, a un
saldo “discorso” e a una complessa elaborazione
tematica.
Nella
strofetta parla, come all’inizio, la prima persona. La voce
che dice “io”, controfigura del
“vecchio” poeta, oppone la sua patetica ed elegiaca
condizione, il suo suono che immaginiamo flebile, al marcato ritmo
della terzina in tondo dei vv. 7-9 e ai versi immediatamente
precedenti; il personaggio inoltre richiama – anzi sembra
esplicitamente citare – quello che abbiamo da poco
incontrato, leggendo la raccolta, nella poesia
Il custode, e che, come abbiamo visto, lo stesso Fortini
richiama come antecedente di quest’ultima poesia.
Lì, in una sorta di agone dialettico col misterioso
«custode» che è nel titolo (e che viene
richiamato al v. 4 di E questo è il
sonno…) il soggetto-protagonista del quadro
narrativo si presenta in una ricerca di residui che vorrebbero essere,
forse, i luoghi allegorici, la facies hyppocratica
del senso:
Frugo in fondo alle tasche, tra le briciole | |
di paglia e di galletta, tra le bucce | |
di castagne, lanuggini, crini di fodere30. |
I due testi, e non solo per questo, e, ancora, non da
soli, costituiscono in qualche modo un piccolo
“sistema” entro la raccolta. Presentano entrambi
una estrema ricerca del significato, relegato ormai fra relitti e
foglie morte, in luoghi e spazi, dunque, non di pienezza ma di vacuo.
Il «fatuo vecchio» cerca invano tracce del senso
tra le foglie dei viali, relitti anch’esse di stagioni
vitali: non più nella lotta, nel combattimento,
nell’energia sociale e collettiva. La volontà di
trasformazione e liberazione, affidata fino a ieri a grandi progetti
culturali e sociali (la religione, le lotte, il movimento operaio, il
marxismo...), sarebbe dunque diventata un feticcio, una
“narrazione”? E invece no, la storia non si
arresta, anche se le sue vie appaiono, alle generazioni al tramonto,
ignote e oscure. Nella poesia più matura di Fortini (e nella
più tarda raccolta, in particolare) «insieme alla
fine è riaperto il discorso di un nuovo inizio: genesi ed
apocalisse, nella visione dell’autore, debbono rimescolare i
tempi per far luogo ad un tempo nuovo»31.
Bisognerà forse lasciare la parola a nuove figure, nuove
identità, nuovi “discorsi” (il
“vecchio” Fortini sembra voler affrontare questi
temi, in certe pagine di Extrema ratio e in
numerosi interventi degli ultimi anni), dopo che tutto ciò
che aveva costituito l’insieme dei valori propri della spinta
liberatoria dell’uomo novecentesco, legata alla chiara
cultura del conflitto e dell’antagonismo, ha mostrato il suo
esaurirsi; ma non possiamo certo leggere questi versi come un cedimento
alla cultura del “pensiero debole”, assolutamente
egemone alla fine degli anni Ottanta, ma sicuramente e duramente
avversata da Fortini sia sul piano culturale sia su quello politico.
Semmai tale pensiero (che è innanzi tutto una prassi sociale
diffusa) rivela meglio del pensiero dei
“resistenti” la sconfitta e la fine di un ciclo
sociale, essendo – di fatto –
l’introiezione di tale sconfitta. Il conflitto,
irrinunciabile, andrà dunque ricercato, o indicato, in una
elaborazione e in una prassi che non separino
l’attività positiva dell’uomo dalla sua
soggettività, per fragile ambigua e
“colonizzata” che essa sia? Certo è che
l’erede non è più, come nella poesia di
Brecht tradotta e commentata da Fortini quasi vent’anni
prima, il giovane e allegro ladro di ciliegie, che a tale assunzione di
ruolo alludeva nel riempirsi le tasche del frutto rubato32:
qui l’invito, quasi la supplica, alla protezione di
verità «nostre», ossia di generazioni
passate, ormai al tramonto, è rivolto a ragazzi
inconsapevoli, turbati, estranei ai miti e alle fedi dei padri,
disordinatamente in cerca di se stessi e di un senso, mestamente
oppressi dalla povertà dell’esperienza (lo
scalciare la bottiglia può essere letto anche come un
mettere da parte la tradizione, l’eredità e la
saggezza dei padri). Sono essi ormai gli sconosciuti eredi, cui il
vecchio poeta consegna saggiamente, senza saperne l’esito, il
proprio lascito. I «ragazzi mesti» richiamano il
«mito allucinato dell’erede» da Fortini
individuato nel ladro di Brecht; ma, inoltre, riassumono in
sé le varie figure che abbiamo incontrato scorrendo il
testo, dai ghiri dei boschi alle acque carcerate, dai disperati
nichilisti ai combattenti fino alla fine. Sono essi, in ultima analisi,
il vendicatore che – avevamo letto prima – non
sarebbe sorto: figure non di pienezza, ma di vuoto, allegorie non di un
esito ma di un passaggio. Il vecchio non ha nulla di insegnare ai
giovani, può solo supplicarli di proteggere certe
verità che riconosce come sue e proprie anche di una
generazione: non riproponendole tali e quali, ma cercandone altre:
trasmettendo, per l’appunto, la forma della ricerca, o, se si
vuole, la ricerca come forma. Del resto onorare
l’eredità dei padri, proteggere il loro lascito
(la bottiglia scalciata, la pietra scartata dai costruttori), non vuol
dire, con Ugo Foscolo, indirettamente citato, averne il culto
(«Proteggete i miei padri» è, come si
ricorderà, l’emistichio due volte ripetuto da
Cassandra nei versi finali di I sepolcri), non solo
conservarla, ma anche e soprattutto perderla, dissolverla,
trasformarla. Proteggere e riproporre l’eredità,
in questo senso, comporta anche la difesa di una memoria, richiesta a
coloro che non desiderano altro che sparire («… ma
difendeteci», v. 26), non meno che agli eroici
resistenti guidati da Klockov.
Il
vecchio è anche il poeta, il vate, il depositario di saperi.
Nel rivolgere le foglie egli cerca probabilmente anche qualche altra
cosa: un ruolo per sé in quanto poeta. Ma sa che questo
ruolo è ormai impossibile: fortunatamente impossibile. Quasi
certamente l’immagine patetica ed elegiaca del volgere le
foglie non è solo un quadro, a suo modo,
“realistico”, tratto dalla vita di tutti i giorni;
quasi certamente c’è dietro un’allusione
precisa al ruolo del poeta/profeta e guida.
Come dava la profezia la Sibilla cumana? Ce lo dice il
mito, e Virgilio fra gli altri, nel sesto Canto dell’Eneide;
qui la Sibilla si scatena in un canto sgolato, incomprensibile e
terrorizzante; ma di solito scrive la sua sentenza sulle foglie, che il
vento, poi disperde e porta via; ed Enea la prega proprio di evitare
questo suo modo di profetare («foliis tantum ne carmina
manda/ ne turbata volent rapidis ludibria ventis;/ ipsa canas oro
… , vv. 74-76). E Dante, nel XXXIII del Paradiso
(vv. 65-66):
Così al vento, ne le foglie levi, | |
si perdea la sentenza di Sibilla. | |
L’immagine
del vecchio che rivolge le foglie quasi a cercarvi una profezia, lo
scioglimento di un enigma, è dunque, molto probabilmente,
quella del poeta che cerca, ma non ritrova, il suo ruolo antico di
vate: questo non gli è più consentito, o
è visibilmente degradato; il futuro appartiene ai suoi
eredi. Essi sapranno trovare il linguaggio, i valori più
adeguati.
Questi
versi si lasciano leggere quasi come una mesta elegia. Ma è
chiaro che il tema è quello
dell’eredità e del significato, proprio
perché, come sempre in Fortini, viene censurata
l’urgenza esistenziale, per il consueto tramite della sua
trasposizione sul piano dei destini generali. A interpretare nel suo
insieme il testo, a intravedere nel testo della vecchiaia filamenti di
una elaborazione già avviata, se non consolidata, una Cina
allegorica torna forse a proposito. Di Lu Xsün, da lui molto
amato, Fortini aveva molti anni prima, tra l’altro, scritto:
«L’uomo che in punto di morte detta le sue
magnifiche e implacabili disposizioni testamentarie che guardano verso
la vita è quello stesso che ha sempre guardato anche verso
le creature che, dal passato, dalla tradizione, si nutrono del nostro
stesso sangue. […] Per questo l’opera di Lu
Xsün è un episodio della rivoluzione mondiale.
Distrugge i tumuli degli antenati, ne sparge i resti, vi semina i
cereali di cui i sopravvissuti si nutriranno. Esercita atterrita la
necessaria empietà filiale»33.
note
1. Basti ricordare le osservazioni condotte da P. V. Mengaldo a proposito di Questo muro, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, Bollati Boringhieri, Milano 2000, pp 291-317.
2. La sezione «La salita» e il componimento dello stesso titolo rinviano ovviamente al Purgatorio. Per il resto i rimandi di Fortini (che si leggono, nella Note finali alle pp. 85 e 86) sono ancora al Canto XXVII, quello stesso che fa da ideale riferimento tematico alla raccolta Questo muro. Fortini richiamerà questo Canto del Purgatorio dantesco anche per il componimento Il custode (ma i rimandi alla «santa viva selva denunciano una indicazione erronea, essendo la «selva antica», il Paradiso terrestre, un sintagma del v. 23 del successivo Canto XXVIII). Su questo, e su altri spunti che seguono, cfr. C. Calenda, Di alcune incidenze dantesche in Franco Fortini, in ID., Appartenenze metriche ed esegesi. Dante, Cavalcanti, Guittone, Bibliopolis, Napoli 1995, pp. 145-53; e G. Magrini, Il nido del nido, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», Università di Siena, vol. VI, 1985, Olschki, Firenze 1986, pp. 331-42.
3. F. Fortini, Composita sovantur, Einaudi, Torino 1994, p. 86.
4. Il sonno e il conseguente risveglio sono naturalmente anche una citazione del sonno di Dante, nel Canto XXVII del Purgatorio, dopo l’attraversamento del muro di fuoco, nell’«alta grotta» del v. 87. Ma la «selva», come abbiamo già notato, compare nel Canto successivo, quello di Matelda.
5. M. Riffaterre, Semiotica della poesia, Il Mulino, Bologna1983, p. 142.
6. L’analisi di Freud del lapsus legato a questo verso si legge in S. Freud, Opere, a c. di C.L. Musatti, 4, Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti 1900-1905, alle pp 63-68.
7. Cito da La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1985, pp. 1890-91.
8. Ivi, pp. 1618-19. Citiamo i primi due versetti anche dalla Vulgata, per la maggiore trasparenza del rapporto fra testo poetico e testo latino: «Laetabitur deserta et invia/ et exultabit solitudo et florebit quasi lilium//germinans germinabit et exultabit laetabunda et laudans» (da Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, Deutsche Bibelgesellshaft, Stuttgart 1994, p. 1131).
9. CFr. S. Freud. Opere, cit., p. 68.
10. Cfr. N. Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986, pp. 53 e 54. Per un impiego delle categorie di Frye a proposito di Fortini, cfr. L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Piero Manni, Lecce 1999, specie alle pp.189-91.
11. Cfr. Ch. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma 2005, p. 26.
12. Ivi, pp. 26-27.
13. Cfr. F. Fortini, Nota del trasduttore in F. Kafka, Nella colonia penale e altri racconti (Einaudi, Torino 1986, pp. 277-85); «perché l’umano verme compia la sua metamorfosi in angelica farfalla è necessaria la Grazia», annota lo scrittore (p.284); Fortini risente quasi certamente della lettura di Kafka resa da W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus novus, Einaudi, Torino 1976, pp. 261-89.
14. B. Brecht, Poesie di Svenborg seguite dalla Raccolta Steffin, Introduzione e traduzione di Franco Fortini, Einaudi, Torino 1976; la citazione è tratta dalle pp. 143-44.
15. P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, cit. , p. 305.
16. Cfr. E. Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, in Hortus, 16, II sem.1994, pp. 20-27.
17. Cfr. il saggio di C. Donà, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 344.
18. Ivi, p. 9.
19. Ivi, p. 191.
20. Ivi, p. 190. Nell’annotare, nella stessa pagina, una serie di elaborazioni sul tema del rapporto fra predatore e preda, che portano progressivamente dalle «forme più selvagge e violente che si esprimono nel modello predatorio» ad altre più miti ed elaborate che seguono un «modello oracolare», Donà osserva fra l’altro che «il Medioevo occidentale porta a termine questa evoluzione riprendendo il modello predatorio e rovesciandolo puntualmente; allora, conformemente ai predicati della religione dell’Agnello, non ci si identifica più con il predatore, ma con la preda, e quello della caccia non è più un modello da seguire, ma uno stadio da superare».
21. F. Fortini, Composita solvantur cit., p. 86.
22. Il testo della Epistula ad Romanos, 8, 19 e 22-24, si trae sempre da Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, cit, p. 1759, che riprende la procedura di scrittura di San Girolamo, per cola et commata; e dunque senza interpunzione. Ed ecco la traduzione: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione di figli di Dio. […] Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza siamo stati salvati» (La Bibbia di Gerusalemme, cit, p. 2433).
23. K. Barth, L’Epistola ai Romani, a c. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 291-92. Abbiamo, naturalmente mantenuto, nella citazione, le lievi differenze lessicali rispetto al testo citato da Fortini. Interessante, ai fini interpretativi, è anche il seguente passo, che sposta l’attenzione dalla natura all’uomo: «Anche noi manifestamente gemiamo, noi “possessori delle primizie dello spirito”, né più né meno che la creazione gemente che ci sta intorno; gemiamo nella stessa “vanità”, cioè nello stesso contrasto di vita e morte, di luce e di tenebre, di bellezza e volgarità in cui la udiamo gemere anch’essa; siamo in travaglio come la creazione, portando in noi un futuro eterno del quale sappiamo che non è mai stato né sarà mai tempo» (Ivi, pp. 293-94).
24. Traggo questa citazione da F. Fortini, Disobbedienze. II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Manifestolibri, Roma 1996, p. 180.
25. Com’è noto Fortini ha punteggiato la sua attività saggistica di interventi polemici contro ogni forma di “irrazionalismo”, vero o presunto, talora forzando i termini polemici, fin dagli anni Sessanta; ma qui sembra proprio che si possa individuare un episodio preciso come retroterra dei versi. Nello stesso volume appena citato leggiamo infatti, alle pp. 82-87, l’articolo Le invisibili incrinature degli anni Ottanta, che recensisce il volume collettivo Sentimenti dell’aldiqua, e che possiamo considerare una sorta di summa, sintetica, dell’atteggiamento intellettuale e morale dello scrittore su questi temi. Interloquendo con Paolo Virno e Giorgio Agamben, Fortini non si limita a polemizzare contro le posizioni nichilistiche, contro il “cinismo” che accetta, di fatto, il dominio del capitale e la sussunzione delle coscienze separate all’interno del suo anonimo piano. Egli accoglie parte delle posizioni degli “avversari”, per contestarne tuttavia gli ultimi esiti, quasi occultati o rimossi: lo «sradicamento» - introiettato e accettato – che prende avvio dagli anni Ottanta cos’è se non «l’ultimo anello […] di un processo di espropriazione dell’uomo a se stesso»? (Ivi, p. 86).
26. «Tutto questo una volta per sempre ci dice addio», leggiamo in questo componimento ( Il temporale, p. 57); dove il sintagma vale, semplicemente, «una volta per tutte», «d’ora in avanti» e simili.
27. Riprendo il suggerimento da R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni Editore, Lecce 2007, p. 86.
28. Cfr. F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 86.
29. Cfr. L. Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet, Macerata 2008, p. 247.
30. F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 45.
31. L. Lenzini, Stile tardo…, cit., p. 237.
32. Cfr. F. Fortini, Brecht e il suo ladro, introduzione a B. Brecht, Poesie di Svendborg seguite dalla raccolta Steffin, cit.: «la vita dell’allegro ladro […] non è solo profezia di un avvenire dove il mio e il tuo non saranno più; è il mito allucinato dell’erede» (p. VIII).
33. F. Fortini, Lo spettro cinese, in Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1989, p. 294.
[16 giugno 2009]
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