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Per una lettura delle «Sette canzonette
del Golfo» di Franco Fortini
Roberto Talamo
1. I tentativi di ricondurre
l’interpretazione delle «Sette canzonette
del Golfo» di Franco Fortini1 alla
riflessione generale sulla guerra non possono che indurre la critica a
esprimere un giudizio limitato, dubbioso o, al contrario, forzosamente
positivo su questi componimenti. Andrea Inglese, in Scrivere
di guerra: Fortini e Buffoni, rileva che nelle Canzonette
non c’è traccia alcuna di una lettura
storico-politica dei fatti della prima guerra del Golfo2.
Il valore di questi testi si troverebbe allora, aggiunge
Inglese, nella
modalità attraverso cui questi fatti vengono
conosciuti, non come eventi politici, bensì come fatti
televisivi. Le Canzonette del Golfo
direbbero che «la televisione ci avvicina alla guerra e nello
stesso istante ci separa irrimediabilmente da essa»3.
Se questo fosse il reale valore conoscitivo delle poesie in discussione
bisognerebbe rilevare che, in altri luoghi della propria opera, Franco
Fortini ha condotto analisi ben più articolate ed efficaci.
In relazione al rapporto tra guerra e rappresentazione mediatica, la
riflessione condotta all’altezza de I Cani del Sinai
appare, seppure espressa in una terminologia oggi in parte desueta, di
valore infinitamente maggiore4.
Non diverso è l’imbarazzo con cui Ennio Abate
presenta le Canzonette, in un articolo che
ripercorre la riflessione di Fortini sul tema della guerra:
La poesia […] ha perduto il ritmo percussivo e corale di Foglio di via e sembra regredire a “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini). […] Le Canzonette del Golfo sono seguite da autocritica (Considero errore). Quasi temendo di essersi lasciato troppo andare, Fortini metteva sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” e l’ironia “lacrimante” (l’espressione è sua) di quei componimenti. È agevole al lettore capire che l’insieme dei componimenti di Composita solvantur […] “correggono” o ridimensionano il peso di quella singola sezione5.
Sezione indubbiamente da “correggere” o “ridimensionare” se si resta legati all’idea che le Sette Canzonette del Golfo siano un testo sul significato storico-politico della guerra o sulla rappresentazione mediatica dei fatti bellici.
2. In questa breve
nota vorrei provare a fondare l’interesse per questa sezione
di Composita solvantur su un diverso ambito
tematico e conoscitivo. Si proverà a presentare questi sette
componimenti come tentativo di riflessione in versi sulla differente
durata dei tempi storici e sulla possibilità di vederne
l’incrocio in un’ontologia integralmente storica e
sociale dell’umano.
Per fare questo è utile accostare le
Canzonette non ai testi dell’autore dedicati alla
guerra, bensì a una poesia pubblicata in Poesie inedite6
che, negli ultimi anni, ha attirato l’attenzione
di alcuni critici. Mi riferisco a
Reversibilità7
e agli studi di Guido Mazzoni e Romano Luperini.
Nell’interpretazione che il primo dà di questo
componimento, in Forma e solitudine, si legge:
La poesia parte dal passato, attraversa il presente e ritorna al passato […]. Il punto di vista è quello dell’uomo moderno, che solo con molta difficoltà riesce a capire perché la vita e la dottrina di un filosofo sparito, e in generale tutta la storia passata, possano ancora riguardarlo. […] Gli interlocutori silenziosi di questa poesia, cioè ogni uomo nel tempo storico presente, sono, per quello che apprendono dall’esperienza quotidiana, isolati e soli; le forme di trascendenza che davvero li riguardano sono soltanto la morte personale e i desideri. […] Attraverso il desiderio, l’uomo capisce di non essere adempiuto, di non essere tutto. […] Il desiderio […] è in realtà ciò che porta il singolo fuori di sé, nella vita sociale. […] Reversibilità ha come tema l’esperienza dei livelli di realtà che trascendono la vita privata8.
Romano Luperini interpreta questa poesia come segno del rovesciamento della situazione privata in pubblica:
Da un lato, la vita dei popoli di cui percepiamo l’esistenza attraverso le radio determina la nostra interpretazione del loro e del nostro mondo, e a sua volta questa stessa nostra interpretazione determina la loro vita. Dall’altro, la storia diventa simbolo e figura di ciò che è biologico, naturale, immutabile […]; ma anche il desiderio, il biologico, il vitale-materiale diventa simbolo, figura e voce della storia. […] Il biologico si esprime attraverso lo storico, e lo storico attraverso il biologico9.
E ancora:
L’educazione insegna la reversibilità delle distanze e delle differenze nel tempo e nello spazio, e dunque un nuovo senso di cittadinanza e di etica planetaria, la possibilità di un nuovo patto fra le generazioni e fra i popoli. […] La poesia di Fortini ci comunica in fondo un messaggio semplice. […] L’attività intellettuale che cerca un senso non solo individuale ma pubblico è l’unica risposta laica possibile al nulla della morte e alla ripetitività dei cicli biologici10.
Il dispositivo di
conoscenza messo in atto nelle
Canzonette è analogo a quello descritto
da Mazzoni e Luperini in riferimento a Reversibilità.
La differenza sta nel fatto che, nelle prime, oggetto di riflessione
non è l’alternarsi di passato-presente-passato, ma
il contrapporsi e il fondersi di quelle che gli storici definiscono
“durate”: la lunghissima durata del tempo della
natura (a cui corrisponde il personaggio della “gentilissima
ragazza”), la breve durata della vita dell’uomo
(incarnata nel personaggio del “vecchietto”) e la
brevissima durata della guerra come evento mediatico (personaggi di
questa temporalità sono “gli imperatori dei
sanguigni regni”, gli occidentali a cui “gli
dèi porsero pace” e i “popoli
estranei”). Separate nelle prime sei poesie, queste
differenti durate storiche trovano sintesi nel settimo componimento,
creando quell’effetto di
“reversibilità” in grado di affermare il
senso e la necessità di quell’ontologia storica e
sociale dell’umano, non dimentica dell’ambito
“vitale-materiale”, di cui abbiamo parlato
all’inizio e che Mazzoni e Luperini hanno riscontrato nella
poesia inclusa nella raccolta postuma del 1997.
È necessario a questo punto rileggere i testi per seguire lo
sviluppo di questa dinamica di durate e significati.
3. Il primo
componimento si apre su un quadretto idillico. È il tempo
della natura a inaugurare l’opera: lo splendore del mattino,
un giardino, un «ragnetto» (v. 4) che si dondola al
vento sulla sua ragnatela. Il tempo dell’uomo è
introdotto da un primo segnale: «Lontanissime
sirene» (v. 6) in enjambement con
«d’autostrada» e dall’ingresso
in scena del principale personaggio di queste liriche: il
«vecchietto» (v. 9) che nel suo giardino gode
l’aria tersa di una domenica mattina. Nella terza strofe si
ritorna sul tempo naturale, ma osservato con gli occhi
dell’uomo: le formiche vanno in fila a fare
“danni” alle pere mature. In questo primo
componimento non c’è traccia della guerra, ma il
termine “sirene” sembra annunziarla.
Nella seconda Canzonetta, il
tempo brevissimo degli eventi militari è introdotto da un
verso che ha il sapore di una favola, quasi a voler stilisticamente
riprendere il gioco del ragnetto nel giardino: «Lontano
lontano si fanno la guerra» (v. 1). Il
“vecchietto” è distante dagli eventi,
è «il sangue degli altri» (v. 2) che
viene sparso. Il suo sanguinare è invece procurato da un
altro elemento, ancora una volta idillico e campestre, cioè
dalla puntura di una spina di rosa. La comparazione del proprio sangue
col sangue altrui porta ad una ironica riflessione sul ruolo del poeta
e dell’intellettuale, che chiuso nel suo giardino
“occidentale” non può né
portare aiuto alle vittime e né parlare, perché
la sua parola resta inascoltata. E se anche potesse far sentire la sua
voce, a cosa servirebbero i versi ? La riflessione ha una brusca
torsione verso l’amarezza: si metta fine alla triste ironia,
il sole comincia a scomparire, bisogna indossare una
«maglia» (v. 14) per affrontare l’inverno
del conflitto.
Prima di prendere realmente congedo dalla “mesta
ironia” del componimento precedente, un altro testo di stile
leggero serve a introdurre un secondo personaggio: una
«gentilissima ragazza» (v. 4), che prepara la
colazione al “vecchietto”. L’attenzione
è spostata su piccolissimi gesti quotidiani: il desiderio di
fare colazione non con una qualsiasi tazza, ma con la propria tazza
è promessa di felicità. La tazza riflette il
turchino del cielo quando è più limpido e
leggero, leggero, aggiunge il poeta, «come te» (v.
10), come la ragazza che ha accanto. Già dalla sua prima
apparizione la figura femminile (ironicamente una
“gentilissima” che prepara la colazione) ha una
connotazione al contempo seria: è in più stretto
contatto, rispetto all’uomo, con il tempo naturale, con la
leggerezza dell’aria e il turchino del cielo sereno.
Con la quarta Canzonetta il tono cambia e anche la
forma metrica si adegua: è quella nobile, per tradizione
letteraria, del sonetto. Nelle due quartine lo scenario è
quello della guerra. Come minacciose divinità, i governanti
dell’occidente, i «sanguigni regni» (v.
1), definiti «imperatori» (v. 1), attraversano i
cieli (quanta distanza dal cielo turchino del precedente componimento
!), sorvolando le luci ora notturne delle città. Essi sono
assorti, concentrati nel definire progetti malvagi o colpevoli.
Scagliano «tra fetori e fumi» (v. 5) micidiali
schiere di «congegni» (v. 6), di bombe.
L’effetto dei bombardamenti è quello di dilaniare
i corpi degli uomini, ridotti a brandelli: si riconoscono femori o
cervelli, e in quelli che non sono più uomini, ma solo
immagini spettrali di uomini (“segni umani”), sono
impressi, come marchi, grumi bruciati e rappresi. Nelle due terzine del
sonetto la focalizzazione è di nuovo
sull’Occidente, ma questa volta, non è l’io
a campeggiare, ma il noi degli uomini e delle donne
occidentali. Questi dèi-imperatori a noi, solo a noi, hanno
dato pace. Per i nostri giorni, che pure volgono al tramonto
(«occidui», v. 10), si ravvivano e splendono i
vigneti e i campi seminati e il riso favorevole della sorte. Ci rende
sereni e allegri un breve riso, quel «poco» (v. 12)
costituito da una vista che ci permette di spaziare con lo sguardo o,
in chiara opposizione, la chiusura della pagina di un libro, che
promette autoteliche glorie letterarie. Osservando nuovamente questo
sonetto nel suo complesso, si nota come nelle due quartine, con effetto
di accelerazione che sottolinea la rapidità del tempo
brevissimo degli eventi bellici («già»,
v. 5), è descritta la guerra. A questo tempo corrispondono
nuovi personaggi senza volto: gli imperatori-dèi e i popoli
occidentali, protagonisti di questa specifica durata. Per la seconda
volta, inoltre, l’attività poetico-intellettuale
è connotata dal marchio dell’impotenza e della
chiusura («i chiusi inchiostri», v. 13).
Nella quinta Canzonetta l’«inverno»
(v. 1) della guerra è già passato, il tempo degli
eventi si fa sempre più breve. I suoi
«clamori» (v. 2, metafora
“morta” del lessico giornalistico) sono stati
insieme terribili, per la realtà della guerra, e vani, per
l’effetto di irrealtà creato dalla comunicazione.
Al tempo delle battaglie di popoli che ci sono lontani, estranei,
estraniati dal racconto mediatico, si oppone nuovamente il tempo lungo
della natura: l’«eterno degli
ippocastani» (v. 5), che continuano a germogliare dai
«ceppi» (v. 6). Nella seconda strofe ritorna il
personaggio femminile, che sembra avere la stessa lenta indolenza della
natura: graziosa, annoiata, ancora in pigiama sul terrazzo, rivolge una
preghiera alla natura, sua “simile”: chiede che il
bene vinca sui campi coperti di sangue, come il sole vince la nebbia al
mattino. La preghiera della donna si può considerare
“esaudita”, ma solo in un senso, ancora una volta,
ironico: è già marzo (il 27 febbraio George Bush
aveva annunziato la fine delle ostilità) e lei non si
è accorta che il «peggio» (v. 14), il
male della guerra, è improvvisamente svanito.
Nella sesta poesia, il ritorno della primavera («Aprile
torna», v. 1) sembra far dimenticare la guerra appena
terminata e i versi descrivono la vita di un borgo in un giorno di
festa. Il fresco della sera arrossa le guance di alcune ragazze,
impegnate in una gara ciclistica. I ragazzi avvertono quasi in modo
animalesco il loro odore («le annusano», v. 9), una
delle ragazze passa nella grazia del seno e della muscolatura. Eppure
qualcosa nella festa primaverile è cambiato: le parole
vociano «rauche» e «laide» (vv.
5 e 6): «Fu dolce, in altro tempo, primavera. / Godono pepsi
cola ignude gole.» (vv. 7-8). La stagione non è
dolce, la sua dolcezza è in un tempo ormai passato o
nell’eterno inattingibile della natura, soprattutto per il
“vecchietto”. Per lui, la stessa bellezza femminile
che passa appartiene a un altro tempo, un tempo in cui fu un pungente
piacere. Non gli resta che interrogarsi su quale piacere sensibile gli
resti. La conclusione è amaramente ironica: il
«dormire» (v. 14).
Il dormire si trasforma nell’immagine affine della morte
nell’ultimo, fondamentale, bellissimo componimento. Tutta la
tensione presente tra tempi, luoghi e personaggi-simbolo è
ripresa e sintetizzata in pochi tratti essenziali e la vicenda del
“vecchietto” (e in essa quella del poeta e della
poesia) trovano compimento. L’operazione di
“pulizia” del proprio giardino è in
relazione con l’operazione di “polizia”
in atto durante la prima guerra del Golfo11.
Nello stesso tempo il “vecchietto” si identifica
con le vittime. Nel momento in cui sente avvicinarsi la morte, come la
lumaca morente che rimette «plasma e anima» (v. 8),
rilascerà un veleno scuro e definitivo che lento si
insinuerà nel potere degli
“dèi” della guerra12.
I tre tempi e le tre figure rappresentative di queste diverse durate
coincidono per un attimo nella sua figura. Il
“vecchietto” sperimenta insieme il tempo breve
dell’umano, nel suo imminente morire, il tempo brevissimo dei
carnefici, nel suo gesto distruttore di ‘pulizia’,
il tempo lunghissimo dell’«ultimo» veleno
(v. 12), che «lento» (v. 11) distruggerà
gli «dèi crudeli e ignoti» (v. 11).
Come la critica ha evidenziato per
Reversibilità, anche nelle Sette
Canzonette del Golfo l’intrecciarsi e confondersi
dei tempi storici (in questo caso “durate”), dei
luoghi (vicino-lontano) e qui ancora delle diverse funzioni simboliche
dei personaggi, oppongono alla vanità del parlare, alla chiusura
degli “inchiostri”, l’apertura
della «possibilità –
riprendendo ancora Luperini – di un nuovo patto fra le
generazioni e i popoli», negazione possibile di quella
«nuova èra nelle relazioni
internazionali» inaugurata dalla guerra. Fortini giunge
così a disegnare un’ontologia integralmente
materiale, storica e sociale dell’umano.
Quella sorta di palinodia (Considero errore)13,
che segue di poche pagine le Canzonette,
non ne mette in discussione la riflessione fin qui
evidenziata, ma vuole ribadire, fuori da ogni dubbio, che la soluzione
proposta non è individuale. La risoluzione non è
infatti nel momento estremo della propria morte, recitata nei modi di
una «ironia lacrimante» (v. 4), ma nel tempo lungo
di chi avrà il compito e il dovere di capire «che
tempo fu quello» (v. 9), che tempo è il nostro,
che appare «incomprensibile e senza nome» (v. 11).
Il compito non è più quello del poeta al termine
del tempo breve della sua vita, ma quello di chi verrà, il
compito di inventare, di trovare una spiegazione.
L’attenzione non è più rivolta a
sé, ma a noi: «voi tutto dovrete
inventare» (v. 14).
4. A conclusione di
questo tentativo di lettura delle Sette canzonette del Golfo
è utile porre una breve bibliografia ragionata, che
introduca al lettore altre indagini e proposte ermeneutiche di cui non
si è potuto dare conto in questo scritto.
Fondamentale per un approccio filologico ai testi è
l’articolo di Marianna Marrucci, Canzonette del
Golfo. Varianti e inediti, in «L’Ospite
Ingrato» VI, 2003, 2, pp. 239-247. Dalla spoglio della
corrispondenza relativa a questo componimento appare, tra le altre
informazioni, l’intenzione di Fortini di far musicare le Canzonette
e l’importante definizione, che l’autore
dà dell’opera, di “manierismo del
Golfo”.
Sul concetto di manierismo e sulla complessa trama intertestuale
soggiacente alle sette poesie (da Metastasio a Manzoni, da Foscolo a
Pascoli) si veda l’articolo: Marina Polacco, Fortini
e i destini generali. Lirica e “grande politica”
fino a Composita Solvantur, in
«Allegoria», n.s. VIII, 1996, 21-22, pp. 42-61,
successivamente ripreso nel volume M. Polacco, L’intertestualità,
Laterza, Roma-Bari 1998. Ai rimandi intertestuali messi in
luce in questi scritti bisogna aggiungere quello, suggerito da Luca
Lenzini, alla poesia No’ angossarte,
putèl, spera… di Noventa (e
indirettamente Heine e Brecht): L. Lenzini, Il poeta di nome
Fortini, Manni, Lecce 1999, p. 222. Ancora Lenzini ha
scritto note importanti sulla “mesta ironia” di
questi componimenti: L. Lenzini, Fortini, in Id., Stile
tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet, Macerata
2008, p. 234-236.
Sul manierismo e sul problema del tempo nell’intera opera di
Fortini si vedano rispettivamente l’articolo di Thomas
Peterson, Aspetti manieristici della poesia di Fortini e
quello di Giuseppe Nava, Tempo e memoria nella poesia di
Fortini, entrambi pubblicati in Aa.Vv., Dieci
Inverni senza Fortini, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 83-92 e
pp. 357-363. In quest’ultimo scritto, la dimensione del
tempo, nelle Canzonette, è individuata
come «strategia di difesa», adottata da Fortini,
contro «il funesto valore inaugurale d’una nuova
epoca di guerra» (p. 358). Un’ottima
definizione del manierismo fortiniano è data da G. Mazzoni
in Forma e solitudine, cit.: «Il
manierismo esprime nostalgia perché evoca
un’immagine dell’integrità che
appartiene al passato per scatenare, al cospetto della
realtà alienata, un’energia di attesa: non
è dunque un valore adempiuto ma un progetto. […]
In questo senso, il manierismo è una forma di ironia
romantica: indicando una verità ulteriore e irraggiungibile,
chiede di essere superato e inverato» (p. 202). Il rapporto
generale tra ironia ed “energia di attesa”
è stato teorizzato molto bene, riferendosi a Benjamin, da
Paul de Man: «L’ironia è la radicale
negazione la quale, tuttavia, rivela, attraverso il disfacimento
dell’opera, l’assoluto verso il quale
l’opera è in cammino» (P. de Man, The
Concept of Irony, in Id., Aesthetic Ideology,
University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996, p.
163-191, tr. it: Id., Il concetto di ironia, in
«Studi di Estetica», anno XXXV, III serie, 35-36,
2007, pp. 73-100. Il passo citato si trova a pag. 99).
Si veda infine la recensione alla raccolta
Composita solvantur di Raffaele Cavalluzzi (Fortini,
“Composita solvantur”,
in «Lavoro critico», n.s., 1992 [in
realtà 1996], 22-24, pp. 121-124), che interpreta la settima
delle Canzonette come «densa metafora
autobiografica della patologia che infierisce, sorda, nella sua
esasperata fisicità, dentro le viscere
dell’uomo-Fortini» (p. 122).
APPENDICE: i testi
Sette canzonette del Golfo
1. Ah letizia…
Ah
letizia del mattino!
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.
Lontanissime
sirene
d’autostrada, il sole viene!
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.
Le
formiche in fila vanno.
Vanno a fare, ehi! qualche danno
alle pere già mature…
Quanto sole è sul muretto!
Le lucertole lo sanno.
2. Lontano lontano…
Lontano
lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io
questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando
quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non
posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
E
se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei
sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi ?
Non
credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
3. Se la tazza…
Se
la tazza mi darai
che mi piace, la mia tazza
con il manico marrone,
gentilissima ragazza,
tu felice mi farai.
Il
suo manico ha il colore
del più vivo e ricco tè
ma riflette anche il turchino
del leggero cielo se
è leggero come te.
4. Gli imperatori…
Gli
imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell’orbe assorti in empi o rei disegni!
Già
fulminanti tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.
A
noi gli dèi porsero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.
Noi
bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.
5. Come presto…
Come
presto è passato l’inverno
fra clamori terribili e vani!
Le battaglie di popoli estrani
che mai sono in confronto all’eterno,
all’eterno degli ippocastani
che dai ceppi si industriano lenti
a sperare germogli lassù?
E
tu assorta graziosa annoiata
sul terrazzo, in pigiama pervinca,
forse chiedi al mattino che vinca
come il sole la bruma ostinata
così il bene sui campi cruenti?
Ma è domenica, è marzo: non senti
che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?
6. Aprile torna…
Aprile
torna e a sera un frescolino
irrita gote di ragazze accese:
in un palio ciclistico protese
volanti rubiconde mutandine.
Come
rauche ora vociano parole
quasi laide nell’aria della sera!
Fu dolce, in altro tempo, primavera.
Godono pepsi cola ignude gole.
I
ragazzi le annusano. Una bella
passò, di zinne e deltoidi ribaldi
e d’altro che acre un dì mi fu diletto.
Ma
come mai sensibile diletto
trovar non so che me attonito scaldi?
Sì, d’aprile il dormire è cosa bella.
7. Se mai laida…
Se
mai laida una limaccia
quando a ottobre l’aria è spenta
lenta bava perse lenta
che di lunga e liscia traccia
porri o sedani segnò,
metaldèide
in grigi grani
fai che inghiotta; e a globo stretta
plasma e anima rimetta.
Quanti soli già lontani
la lucertola mirò!
Lento
a dèi crudeli e ignoti
va il mio bruno ultimo fiele…
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?
***
Considero errore
Considero
errore aver creduto che degli eventi
(«meglio non nominarli!» mi soffiano i piccoli
dèi)
di questo ’91 non potessi parlare o tacere
se non per gioco, per ironia lacrimante.
I
versi comici, i temi comici o ridicoli
mi parvero sola risposta. Come sbagliavo !
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.
Chi
mai potrà capire che tempo fu quello? Credevo
scendere in un mio crepuscolo. Ahi gente! Invece
altro era, incomprensibile e senza nome. Guardavo
la
luna di aprile sullo Eichhorn, a mezzanotte,
e la stellina d’oro dello Jungfraujoch, Disneyland.
(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare).
***
Reversibilità
Anassagora
giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si
ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
–si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora? E così vive ancora,
parlando
con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
note
1. F. Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994, pp. 29-37.
2. A. Inglese, Scrivere di guerra: Fortini e Buffoni, in «Qui. Appunti dal presente», 9, primavera 2004, pp. 41-49.
3. Ivi, p. 42.
4. F. Fortini, I Cani del Sinai, Quodlibet, Macerata 20023, in particolare pp. 12, 18-19, 24.
5. E. Abate, Fortini, la guerra, la pace, in «Poliscritture», rivista pubblicata in cartaceo e on-line, www.poliscritture.it/article.php3?id_article=96. L’articolo è del 2007.
6. F. Fortini, Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972
7. Ivi, p. 27.
8. G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 206-208.
9. R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-87.
10. R. Luperini, La condizione intellettuale, Prolusione per l’inaugurazione del 767° anno accademico, Università di Siena, 2007, www.unisi.it/eventi/inaugurazione767/relazioni.htm
11. Scrive Fortini in nota, affiancando i due temi: «Le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, un’operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo una nuova èra nelle relazioni internazionali. La metaldèide di Se mai laida…è nome chimico di un prodotto che contro lumache o limacce si sparge in granuli sul terreno» (F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 85).
12. Sul tema del veleno della vittima che uccide il carnefice, cfr. F. Fortini, Stanotte…, in Id., Composita solvantur, cit., p. 13. Romano Luperini commenta così questa poesia: «Il morso con cui l’animale uccide la bestiola lo condanna: resterà contagiato dal veleno che già contamina il sangue della sua vittima. […] A entrare in circolo […] è il veleno di un inquinamento che tutti ci riguarda» (R. Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 71). La poesia, risalente al 1985, fu pubblicata inizialmente con il titolo L’animale.
13. F. Fortini, Composita solvantur, cit., p. 74.
[16 giugno 2009]
home> fortiniana> Per una lettura delle «Sette canzonette del Golfo» di Franco Fortini