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«Probabilmente tutto»: appunti
su Dieci inverni (e su certe riviste)1
Luca Lenzini
A
proposito di Dieci inverni, e del Fortini di quegli
anni (1947 – 1957), vorrei svolgere un discorso di sorvolo,
all’ingrosso: come si dice di uno che “le spara
grosse”. Sono infatti moltissimi i punti di vista a cui il
libro si offre: letterario, storico, sociologico; e naturalmente, come
tappa o episodio interno all’itinerario di Fortini. Ma a me
basta fissare qui, schematicamente, alcuni punti in chiave preliminare
e subito, per cominciare, vorrei dirne una grossa: e cioè
che se il nostro fosse un paese con un briciolo di dignità e
di consapevolezza (di sé e della propria storia),
Dieci inverni sarebbe uno dei libri di cui dovrebbe essere
orgoglioso.
Orgoglioso, certo, per l’indipendenza di giudizio e la
capacità critica che testimonia in anni di contrapposizioni
drammatiche e di appartenenze altrettanto rigide; ma soprattutto
perché un libro come questo è sì il
frutto di un’intelligenza insolita e solitaria, ma
è anche abitato, da cima a fondo, da tensioni e da ideali
che trascendono sia l’orizzonte individuale, sia quello
nazionale: è perciò, allo stesso tempo, un libro
personalissimo e collettivo; minoritario e corale, in quanto incrocio
di voci ed esperienze che segnano un passaggio cruciale della storia
europea. Il dopoguerra, con tutto il peso di una
“geopolitica” divisa, lacerata nei due
“blocchi” (così erano chiamati)
contrapposti, vi è raffigurato come da un alto crinale da
cui si può spaziare da un lato verso il passato prossimo,
dall’altro verso il futuro incipiente.
Ma proprio per questo suo modo d’essere, un libro come questo
misura noi stessi, la nostra cultura; ci ricorda, quanto al paese in
cui viviamo, che esso non dispone né di dignità
né di consapevolezza, e che quel tanto di memoria che ci
è concessa, è appena un diversivo, un docile
strumento per confondere la mente. Le stesse coordinate entro le quali,
attraverso le due epigrafi2, il libro si offriva
sin dalla sua soglia al lettore, «odio del
presente» (Galois) e «pensiero
dell’avvenire» (De Barcos), non ci appartengono
più; ed anzi, per dirne un’altra grossa:
l’Italia, che in una pagina di quegli anni Fortini
descriveva, in un inciso, come «un luogo dove – ci
si illude – basterebbe tanto poco per poter lavorare senza
rancore» (Asia Maggiore, Torino, Einaudi,
1956, p. 164), oggi è un luogo senza esistenza, un torvo
fantasma (in cui forse a esistere è ancora solo il rancore).
Perciò la domanda inevitabile, avvicinando
Dieci inverni, è in primo luogo questa:
quel libro ed il lavoro di cui dà testimonianza –
che parli di Kafka o di Nenni, di Beria o di De Sica, di Antigone o di
Zampanò - non sono che un reperto, un fossile che reca
l’impronta di una illusione, di qualcosa che poteva essere e
non è stato, una traccia interrotta per sempre?
Tutto, oggi, induce a rispondere di sì. Illusioni, o
speranze troppo azzardate, come lo stesso Fortini sottolineava nei suoi
ultimi anni, furono la fiducia in un ruolo autonomo
dell’Italia, e in una sua trasformazione reale in senso
socialista, nel contesto del dopoguerra; ma senza eufemismi dobbiamo
ammettere, più in generale, che nulla, nel paesaggio che ci
circonda, sembra potersi riconnettere all’orizzonte del
«discorso» a cui fa riferimento il sottotitolo di Dieci
inverni: Contributi ad un discorso socialista.
Di quell’orizzonte, e del dialogo (e del dissidio) tra
socialisti e comunisti, con gli errori e le attese di cui Fortini vuole
dar conto, ai giorni nostri s’interessano tutt’al
più gli storici (e non di rado proprio da essi ci dobbiamo
guardare); e del resto, lontanissima è l’epoca
della “guerra fredda”, il cui gelo investe tutte le
stanze del libro. Ma non è solo questo: no - è in
gioco, mi sembra, un mutamento ben più profondo, di lungo
periodo, tanto che la stessa tradizione entro la quale, con piena
coscienza, il libro s’iscriveva (e dopo quello gli altri
libri fortiniani), appare estinta, e quasi incomprensibile la passione
che ne era all’origine - la stessa passione che, in fondo,
presiedeva alla nascita delle riviste in cui Fortini venne pubblicando
i suoi interventi. Nella Prefazione alla ristampa
del 1973 (che non è veramente una ristampa) egli rivendicava
l’essere il libro «uno dei tanti che almeno
dall’età giacobina hanno in Europa chiamato a
resistenza e rigore (o si dica alle virtù civili) una parte
del ceto intellettuale medio e piccolo borghese»3:
ebbene, appunto la trasformazione di quel ceto ed il mutare della
funzione della cultura all’interno della società,
ne decidono l’irrecuperabile distanza (e insieme
l’esaurimento della forma-rivista). Inutile negarlo: oggi
quelle pagine (e quelle virtù) sono più vicine a
Heine o a Herzen che a noi.
Questa
distanza va riconosciuta, non mitigata alla ricerca di una
continuità che non esiste ed è mero wishful
thinking. I punti di forza del libro sul piano del dibattito
ideologico, cioè la critica (precoce e insistita, ma da
sinistra) dello stalinismo, la denuncia delle carenze e delle
autocensure della cultura marxista italiana, e d’altra parte
la messa in guardia contro le illusioni progressiste e le ipocrisie del
pensiero liberale, hanno contato non poco per più di una
generazione, sino a costituire una premessa condivisa alle zone
più vitali della “nuova sinistra”
formatasi negli anni Sessanta; ma non c’è chi,
oggi, possa dire di raccogliere veramente questa eredità
(neanche quelli che, tra loro accapigliandosi, sbandierano le insegne
ed i simboli del comunismo o del socialismo).
Detto questo, provo ora a dire qualcosa sul modo in cui il libro, in
quanto tale e singolarmente, è costruito: quel modo,
infatti, è parte integrante del lavoro intellettuale di
Fortini, del suo stile in senso lato; esso ci parla, prima ancora del
contenuto manifesto di Dieci inverni, delle radici
intellettuali del suo autore. Forse è giusto parlarne
proprio ora che tra lui e noi si aperta una così tangibile
distanza.
Notiamo allora, per prima cosa, che il titolo – Dieci
inverni. 1947 – 1957 – potrebbe far
pensare ad una silloge di tipo tradizionale, che allinei i testi
composti lungo l’arco del decennio secondo un criterio
cronologico ed un ordine sequenziale, in modo da fornire una sorta di
diario-testimonianza di un’epoca (appena trascorsa). Ma le
cose stanno così soltanto in apparenza.
Intanto, il libro è diviso in tre parti, più una
coda conclusiva. La prima (Discorso indiretto)
è formata da saggi e articoli di ambito letterario e
culturale, la cui sequenza sul piano temporale non è di tipo
progressivo ma procede avanti e indietro tra gli estremi del
’49 e del ’57; la seconda (Da un libro
bianco) è un saggio di taglio
biografico-generazionale, un estratto del diario di bordo di un
intellettuale teso a “fare il punto” sulla
situazione della sinistra all’altezza dei primi anni
Cinquanta (1953); la terza (Discorso diretto), la
più lineare dal punto di vista cronologico, si svolge sul
piano propriamente politico-ideologico. Segue la Lettera ad
un comunista, datata 1957 come il testo d’apertura,
Il senno di poi.
Quindi la morfologia del libro è complessa ed irriducibile
ad un solo piano di lettura. Il recupero e la selezione dei singoli
testi - circa un decimo, si noti, della produzione fortiniana del
decennio - quasi mai riprodotti senza qualche (sia pur minima)
variante, va in parallelo con la lavorazione a posteriori
dell’insieme: e sarà sempre così, in
Fortini, secondo un processo di reinterpretazione di sé (e
del mondo) tendenzialmente infinito che ha un luogo privilegiato nelle
prefazioni e nelle note scritte, appunto, con “il senno di
poi”.
Inoltre, ed è non meno significativo, la stessa
conformazione dei testi selezionati è diseguale, non
omogenea: si va dall’impaginazione epistolare di Lettera
a un comunista, che conclude il libro in chiave con
l’apertura del Senno di poi, alla
recensione di film ed all’intervento polemico, fino
all’ampia riflessione diaristica di Da un
“libro bianco” ed a saggi densi e
orchestrati come La biblioteca immaginaria o
Kafka e la critica delle cose. Si ricordi, allora, che
Dieci inverni è sì il primo
libro saggistico di Fortini, ma nel ’57 egli –
quarantenne - è già autore di diversi libri
(tralasciando le numerose traduzioni: Eluard, Kierkegaard, Doblin,
Gide, Weil, Brecht, Proust…): una raccolta di versi (Foglio
di via, Torino, Einaudi, 1946), un racconto in prosa (Agonia
di Natale, Torino, Einaudi, 1948), nonché un libro
di viaggio (Asia Maggiore, Torino, Einaudi, 1956).
Alla fine dei Cinquanta, in breve, lo stile di Fortini saggista si
è già formato nei suoi elementi essenziali, tanto
da poter fornire alcune riuscite esemplari, sia sul piano testuale che
su quello della maturità di pensiero: il decisivo apporto
del marxismo, accolto soprattutto sul versante non dottrinario e
più sensibile alle spinte utopiche, si è
già acclimatato in un organismo al cui interno i fermenti
giovanili derivanti da Michelstaedter, Noventa, Dostoevskij,
Kierkegaard alimentano un atteggiamento costantemente rivolto ai grandi
temi etici.
«Letterato per i politici, ideologo per i letterati»4:
questa auto-definizione così calzante da riassumere tuttora
la storia della ricezione di Fortini nella cultura italiana, vale anche
a designare, in controluce, il genere “misto” della
sua prosa, non così distante dalla poesia come potrebbe
sembrare. Al suo interno i riferimenti
all’attualità convivono con gli echi della Bibbia;
e c’è una corrispondenza tra questa natura ibrida
della scrittura fortiniana, che non si avvale di forme già
date e pone di continuo il lettore – con i suoi perentori
corsivi, ed i suoi aut-aut - di fronte a domande e
ammonimenti, e la struttura del libro, che non è concepito
come contenitore, bensì come campo di tensioni, al cui
interno le discontinuità e le dislocazioni del discorso
tendono a riprodurre una ricerca che non procede per accumulo e
sviluppo lineare, ma per scarti e assalti, avanzamenti e ripensamenti,
calcoli e scommesse.
A proposito di poesia, noterò che il titolo, Dieci inverni, non risponde ad una suggestione estemporanea o episodica, bensì si colloca pienamente e coerentemente entro un quadro allegorico di cui in Foglio di via e poi in Poesia ed errore (1959) sono precise testimonianze. Tempo di latenza, ovvero di veglia e sospesa speranza, l’inverno è un passaggio necessario, una dura prova di resistenza; ma è anche, proprio per questo, l’immobilità, la solitudine e l’attesa che precedono, entro un ciclo più ampio, il movimento, il cambiamento ed il possibile riconoscimento. Il gelo non è solo morte in vita ma l’elemento tragico che lentamente, ostinatamente rafforza il senso imminente della «gioia avvenire»5, al di là del presente. Ed a proposito di echi e di Bibbia, allora, quest’ordine ciclico si configura, in senso “narrativo”, come esodo o attraversamento: cioè, traducendo storicamente, in ricerca di nuovi compagni, dopo le illusioni e le speranze innescate dalla Resistenza, per affrontare un nuovo viaggio, dentro un nuovo paesaggio. Basterà, per illustrare questi nessi allegorici e narrativi, leggere un brano della prosa iniziale del libro, Il senno di poi6:
Uno ad uno se ne erano andati gli amici dei primi anni del dopoguerra. Quale lasciando senza scandalo, quale con scandalo, la parte politica che era stata la sua; uno si dedicava al nuovo impiego, al nuovo posto, con una indifferenza che presto sarebbe stata partecipazione, e un altro quell’indifferenza fingeva, e un altro ancora scavava in una sua sorte, più che destino, come chi si prepara una tana.
In quegli anni gli inverni furono o mi parvero molto lunghi. Uscivo di prima mattina su di un terrazzo, fra i tetti coperti di neve, a prender carbone per la stufa; e altro quando veniva buio. Rimanevo a guardare come il metallo si arroventava. Dalla finestra, vedevo tetti, cortili, fumi, di una Milano vecchia, semidistrutta; poi, nuova. Erano inverni profondi, faticosi. Le rovine che avevamo intorno come l’allegoria di un riscatto possibile spariva per dar luogo ad una città opulenta e meschina. Spariva l’Italia popolare e orgogliosa delle sue piaghe che un tempo aveva scoperto e amato se stessa fra resistenza e dopoguerra; o, se dal sud ne venivano voci e le grida, con le notizie degli eccidi, sembrava intollerabile e inguaribile come il nostro passato; e un’altra Italia veniva avanti, avviluppata nel cinismo di settimanali, bruciata dalla speculazione, coperta di manifesti, piena di colore e di stanchezza coloniale; fatta con la nostra stessa vita, e, come un figlio, irriconoscibile. Eppure bisognava impararne l’avvenire. Volevamo sperare di decifrarvi i destini personali e generali. Perché il mondo, come dice Schlegel, è e rimane la nostra unica spiegazione.
Si
faccia attenzione a come questo brano passa dal piano esistenziale e
descrittivo a quello dei «destini generali»
(l’espressione di Fourier presta il titolo ad un libretto di
versi del ’56), e dall’evocazione della Signora
Ravasio, la stufa a carbone di Via Eustachi ritratta in un
disegno, a Schlegel. In un solo passo la storia del cambiamento che
trasforma l’Italia del dopoguerra nel paese del
“boom economico” è raffigurata come in
una tela di pochi ma incisi colori; ma a colpire non è solo
la restituzione dell’atmosfera, il senso di solitudine
esistenziale e di attesa, bensì l’immagine
pregnante, riferita a quel paese che sta mutando, del figlio
irriconoscibile (un diventare “altro” da
sé). La vicenda delle stagioni, di un’epoca in
transito e delle generazioni si compongono e si riassumono in figura:
ed è su una immagine filiale analoga, ma ora riferita ad
altri
sconosciuti ed al futuro, che si conclude Il senno
di poi: «Anche se non li conosco, vedo altri
lavorare come noi non abbiamo saputo, cominciare a fare quello che
abbiamo saputo augurare. Se il segno di una convinzione – non
voglio chiamarla fede – nella validità e
possibilità universale di quell’ordine delle cose
umane che due secoli hanno chiamato socialismo, ha per essi qualche
significato, anche per me questi dieci inverni non avranno lasciato
solo detriti e cercherò, allievo di coloro che quasi
potrebbero essermi figli, di guadagnare in pazienza quel che ho dovuto
consumare in attesa»7.
Questo quadro allegorico in cui Fine e Cominciamento
s’intrecciano l’un l’altra, non in
virtù di una continuità bensì, al
contrario, per una cesura e un’inversione - il vecchio che va
a scuola dai figli: tema, anche poetico, ricorrente in Fortini - non si
limita però alle pagine introduttive, ma è
riecheggiato, come a fornire la cornice dell’itinerario
individuale e collettivo del libro, nell’ultimo testo, la Lettera
a un comunista, che si conclude con queste parole:
«.. perché ti racconto queste cose, che tu sai
benissimo? Perché voglio esser certo che tu esisti e che non
ti ho immaginato; e che altri esistono fin d’ora come me e
come te; e parlano come noi cominciamo a parlare»8.
Di nuovo gli altri come avviso di possibile
cominciamento. Gli eventi di Polonia e di Ungheria si pongono su questo
crinale, sono segnali, sul piano storico, di un’apertura che
va colta; passaggio tragico, che divide e trasforma il paesaggio, ma
appunto per questo rimette in movimento la storia: il ghiaccio
incomincia a sciogliersi, le acque ricominciano a scorrere. Ma
passando, ora, dalle allegorie ai riferimenti reali, chi sono questi
padri e figli, che si scambiano le parti? In che cosa essi sono
“altri”? Ed in che cosa possono dare un nuovo senso
all’esodo e trasformare il paesaggio? Qui il discorso
possiamo provare a legarlo alle riviste, ed ai gruppi con i quali volta
a volta il lavoro di Fortini si è intrecciato. Nella Prefazione
del ’73 egli parla di amici «conosciuti dopo il
1950, nel pieno del ‘gelo’, quando avevo
già perduto ogni rapporto men che angoscioso con
l’età del “Politecnico”,
[amici che] a me più vecchio di loro moltissimo
insegnarono»9. Si tratta del gruppo di
«Discussioni», conosciuto nel ’51 ma che
già pubblicava da due anni il proprio bollettino
ciclostilato: in un articolo del 1961 Fortini ne parla come della
«prova che dei giovani riscoprivano un pensiero marxista
diverso da quello ufficiale»10. Questa
osservazione di sintesi a posteriori è
sì cruciale ma, a dire il vero, lascia un po’
dubbioso chi, oggi, abbia di fronte la ricchezza di
«Discussioni»: Fortini coglie la novità
della tendenza che si esprimeva, quasi clandestinamente (lontano tanto
dai partiti quanto dalle università), nella rivista, e che
troverà in «Ragionamenti» una
continuazione sempre austera ma più organizzata e visibile,
allo scoperto. Ha qui rilievo la comune distanza, di Fortini e degli
“altri”, rispetto al crocio-gramscismo della
sinistra “istituzionale”, mentre si può
indicare per essi una sponda nella gauche di Sartre
e di «Temps Modernes»; e comune è anche
il parallelo rifiuto del progressismo, su cui
s’innesterà – grazie soprattutto a Solmi
- la lezione critica della Scuola di Francoforte, che
costituirà una bussola cruciale di fronte
all’avanzare del “neo-capitalismo”. Ma
c’è un punto importante, di cui questa
interpretazione non rende conto: e cioè quel che la rivista non
era (e su questo vorrei insistere).
Tra gli insegnamenti che quei giovani – Ranchetti, Solmi,
Guiducci, Amodio, Insolera… - seppero trasmettere al
quasi-padre, più con l’esempio che con la teoria,
infatti, metterei anche un modo di dialogare in cui la letteratura
aveva un ruolo del tutto secondario: anche se i collaboratori del
«Foglio di discussioni» avevano ben presente quanto
d’importante si andava scrivendo a quel tempo, è
sempre da domande sul mondo, sulla società, che essi
partono; ed è questa impostazione, che non ha bisogno di
essere dichiarata in quanto costitutiva, che rende ospitali le spartane
pagine della rivista per gli interventi di Fortini (pochi ma
memorabili: Cadere correttamente; Chi non
spiega è responsabile). Si pensi invece al
malcelato fastidio con cui quest’ultimo guardò
sempre a «Officina», pur condotta da intellettuali
tutt’altro che indifferenti rispetto a ciò che li
circondava: eppure, ogni volta che i discorsi di
“poetica” ed il primato anch’esso non
dichiarato ma scontato, del momento estetico-letterario, formavano il
tessuto connettivo dei gruppi e dei cenacoli, la reazione di Fortini
era sempre di diffidenza o repulsa: egli vi vedeva soprattutto fenomeni
di riproduzione di un ceto separato, la cosiddetta
“società letteraria”, viziata da antichi
rituali, pregiudizi e appartenenze.
Avrà contato, al riguardo, l’esperienza della
giovinezza, nella Firenze degli “ermetici” e dei
loro interpreti, che in parte coinvolgeva lui stesso; certo
è che se osserviamo il suo atteggiamento sulla lunga
distanza, e leggiamo le sue testimonianze di ordine autobiografico,
troviamo che le simpatie di Fortini vanno agli isolati o ai gruppi che
si formano “dal basso”, senza investiture
né di partiti né di congreghe letterarie o
maestri del gusto: sarà così per
«Quaderni rossi» (anche lì un solo
scritto, ma straordinario:
Il socialismo non è inevitabile, 1962) e per
«Quaderni piacentini.» E se poi pensiamo, in questo
ambito, ad un intellettuale che occupi un posto privilegiato, questi
è Raniero Panzieri, a cui dedica, in morte,
una breve prosa dell’Ospite ingrato ed
alcune poesie particolarmente importanti all’interno
dell’opera in versi11. Si noti quel
che afferma Fortini in una testimonianza retrospettiva sul momento
della morte di Panzieri (1964): dopo aver osservato che al funerale
venne rifiutata «qualsiasi presenza di partito nonostante
egli fosse stato un militante della sinistra italiana», egli
aggiunge: «ma la cinquantina di persone che quella sera erano
al cimitero di Torino, pochi anni dopo erano alla testa del movimento
operaio e studentesco»12.
Anche qui, un passaggio analogo a quello postulato da
Dieci inverni, una vicenda che da un’estinzione ed
un lutto ripropone il farsi avanti di altri, il formarsi di
un’avanguardia che riassume in sé e supera il
lascito di un’esperienza solitaria e, in apparenza, dispersa.
(Di «Un inizio, un frammento di società
nuova» Fortini parla nel Senno di poi
come del fine del lavoro proprio e dei suoi compagni di strada)13.
Guardando
ancora dentro al libro, due altre osservazioni di ordine generale, tra
loro collegate. La prima riguarda il tempo, l’estensione
cronologica dei Dieci inverni; la seconda appunto
le riviste.
Tempo: sul piano cronologico, in premessa al libro
Fortini avverte nel ’73 che «i termini sono
[…] quelli del titolo: dai primi del 1947 ai primi del
1957.» (Prefazione, p. 23) In
realtà l’intervento più alto del libro
data 1948, e questo ci ricorda un discrimine fondante, senza il quale
la stessa battaglia politica condotta dal libro non s’intende
a pieno. Voglio dire che gli Inverni sono tali a
partire non solo dall’instaurarsi della “guerra
fredda” ma, in Italia, dalla sconfitta del ’48. E
tanto interrogarsi di Fortini sulle debolezze della sinistra (o meglio,
delle sinistre) ha a che fare non solo con la fine della Resistenza, ma
sul mancato rinnovamento e sui limiti della cultura che la sinistra
stessa ha contribuito a produrre (ecco un altro tratto di lungo periodo
della nostra storia). C’è un passo del
“Libro bianco” in cui Fortini osserva:
«… se della situazione politica del nostro paese
sono responsabili i suoi uomini e le sue classi dirigenti, del livello
della conversazione politica, della situazione della stampa,
dell’editoria, della scuola responsabili sono gli
uomini della cultura antifascista» [cors. del
testo]. E più avanti si chiede «… il
fascismo e la guerra avevano illuminato di una luce nuova la nostra
posizione di nazione nel mondo, la nostra lingua, la funzione delle
nostre élites. Gli uomini della nostra cultura avevano da
compiere un immenso lavoro, esame di coscienza e ripresa di tutti i
temi vitali. L’hanno compiuto?»14.
La risposta di Fortini è negativa; e se molte pagine dei Dieci
inverni sono mosse da un’intenzione polemica, non
va dimenticato che molte altre – e sono forse le
più vitali - si propongono appunto di costruire un nuovo
modo di fare cultura, superando i limiti e le inerti
continuità che impedivano un vero rinnovamento. Del
’56 sono le Proposte per una organizzazione della
cultura marxista italiana, scritte insieme a Roberto Guiducci
per «Ragionamenti», non comprese nel libro; ma si
pensi agli scritti che hanno per tema, per esempio, «la
condizione umana di fronte alla morte, alla malattia,
all’infanzia, al dolore o alla vecchiaia»15:
si vedano La morte nella storia o la recensione a
Fellini, ma anche La critica come servizio. E qui
non c’è proprio nulla che sia confinabile entro i
termini ed i riferimenti dello scenario italiano: gli interlocutori
vanno cercati piuttosto in intellettuali come Morin (redattore di
“Arguments”, sponda francese di
“Ragionamenti”) Merleau-Ponty, Sartre, ma anche
Lukàcs e (più a monte) Weil, presto Marcuse,
Adorno.
Ora
questo del mancato rinnovamento a mio parere è
più di un tema, ben più del frutto di una
riflessione episodica svolta a posteriori. Su questo punto occorre
insistere: si tratta di un tratto fondamentale, sia come rilievo
interpretativo, sia perché si lega al vissuto,
all’esperienza diretta di Fortini. E questa esperienza ,
decisiva per Fortini tanto in bene che in male, porta appunto il nome
di una rivista, del «Politecnico.» (Rossanda lo ha
ben sottolineato in un suo intervento16).
Si noterà che nessuno degli articoli o saggi compresi in Dieci
inverni proviene da quella rivista. Nonostante Fortini vi
collaborasse ancora nel dicembre del 1947 (l’anno della
chiusura), e nonostante che in quella sede fossero apparsi alcuni suoi
testi di grande rilievo, la raccolta del ’57 prescinde
intenzionalmente da quella stagione; ma, subito occorre aggiungere,
tanto il Senno di poi che il saggio immediatamente
successivo (Che cosa è stato il Politecnico),
i primi due testi del libro, e poi ancora Le vie degli ex
comunisti (con le annesse Conclusioni 1956)
parlano del «Politecnico»: ne parlano chiarendo il
quadro in cui ebbe vita la rivista, delineandone i percorsi interni e
le aperture, ma anche evidenziandone e ripensandone i limiti. Si
potrebbe dire, allora, che “metabolizzare” la
parabola del «Politecnico» - fine compresa -
è parte integrante e fondante dello sforzo fortiniano di
superare le ingenuità, le angustie e le
complicità della cultura della sinistra italiana (nel suo
complesso); per questo, cioè in quanto oggetto di discorso,
si occupa di «Politecnico» Dieci inverni,
che allo stesso tempo presuppone e si pone oltre
quell’esperienza.
Ma va anche osservato che la fine della rivista, per il modo in cui
avvenne e per il potere magnetico delle personalità
coinvolte, Vittorini e Togliatti, ha poi finito per semplificare molto,
forse troppo, il nodo delle questioni che erano in gioco e che
restarono inevase. Non è per un caso che in
Questioni di frontiera, il libro del 1977, Fortini recupera
il suo “mancato editoriale”, datato 1945, del
«Politecnico»: sebbene egli apertamente affermi
quelle pagine non avere altro interesse che di tipo
«documentario»17, rilette
oggi e calate nella prospettiva postuma di quegli anni, in cui per
Fortini si stava definitivamente chiudendo la vicenda di quella
“nuova sinistra” che egli aveva contribuito a
formare, esse stanno lì a testimoniare, a giochi conclusi ed
accanto ai bellissimi ricordi di Elio Vittorini e al pezzo di
«Quaderni Rossi», di un possibile inizio, di una
strada percorribile e non percorsa, di un “prima”
rimosso o per così dire oscurato dal tema della
“autonomia della cultura”, così
indigesto per Fortini nella declinazione prevalente a quel tempo (come
se tra la riproposizione di un mito che aveva consentito la catastrofe,
e l’asservimento a dogmi altrettanto perniciosi, non vi fosse
alcuna ipotesi o sfida ulteriore). Basti in proposito
l’accenno, in chiusa proprio all’editoriale
“mancato”, in cui si afferma con nettezza che
«agire per una nuova cultura
intellettuale – vale a dire per una nuova filosofia e per una
nuova sociologia ed economia e arte e teatro e scuola –
equivale a lottare per una nuova società
e quindi anche per la modificazione della sua struttura economica,
premessa di ogni altra»18.
Dire che per Fortini il «Politecnico» fu una
esperienza decisiva, pertanto, non equivale a dire che esso fu per lui
un modello insuperato: anzi. Esso piuttosto incarnò una
speranza che fa tutt’uno con il momento seguito alla
Liberazione dal Fascismo, e che per natura aveva una dimensione
totalizzante (filosofia sociologia economia arte teatro scuola…),
insofferente verso ogni separatezza e altrettanto radicalmente
orientata sul cambiamento, sulla cesura rispetto al passato. Guardare
in faccia le illusioni ed i limiti di quel momento, senza
però rinnegarne la speranza, era perciò il
compito che si poneva Fortini nei Dieci inverni (ma
anche dopo, se pensiamo ad alcuni passaggi cruciali in
Verifica dei poteri).
Per concludere, in chiusura al mancato editoriale del ’45 si
legge : «Possiamo solo ripetere che alla meta della nostra
opera sta anzitutto il superamento del dualismo, generato dalle classi,
fra cultura intellettuale e cultura della produzione o tecnica che dir
si voglia; e al suo inizio vi sta il concetto di “persona
umana” o di “uomo”, obiettivo e origine
di ogni cultura, inteso come l’individuo nella
coscienza della propria correlazione col prossimo e delle proprie
determinazioni storiche»19.
Parole, forse, di un umanista ottocentesco, di un ingenuo e arcaico
socialista: che noi possiamo guardare dall’alto di una
cultura, la nostra, che il “superamento” indicato
da Fortini ha realizzato da tempo, dato che nessuna distinzione
è finalmente possibile, oggi, tra «cultura
intellettuale» e «cultura della
produzione.» Magnifica sorte; e che poi il socialismo non
fosse inevitabile, anche quello lo si è capito, anche se un
po’ in ritardo. Ma perché tanta insistenza, e per
così tanti anni? E perché, infine, tutte quelle
riviste - «Politecnico»,
«Discussioni», «Ragionamenti»,
«Quaderni Rossi», «Quaderni
Piacentini»… La risposta a queste domande mi pare
si possa leggere, tra le righe, in certe pagine di memoria in cui
Fortini racconta dei primi tempi del «Politecnico».
Ne estraggo dei brevissimi passaggi: per esempio questo, che sta in Dieci
inverni:
Ricordo una sera, verso Piazzale Corvetto, una specie di hangar mal illuminato, pieno di operai, di donne con i bambini sulle ginocchia, e ascoltavano parlare del «Politecnico» come di una cosa loro, come se si trattasse del loro lavoro e della loro salute, e interrogavano, volevano sapere.20
Oppure quest’altro, in cui ricordando Albe Steiner Fortini parla delle origini della rivista:
...Giù per Viale Tunisia venivano sere d’inverno molto nere. Cercavamo qualcosa, probabilmente tutto, nella mezza luce. Le forbici tagliavano con nettezza, facevano due parti, costringevano a scegliere. (Albe rideva, faceva scivolare sul tavolo le sue strisce rosse e nere, spostava di un millimetro un titolo, ci guardava e rideva.)21
note
1. Intervento al ciclo di incontri “Dalla Resistenza al Sessantotto. Dal «Politecnico» a «Quaderni piacentini»”, Piacenza, Teatro dei Filodrammatici, 2 aprile 2009.
2. «Il libro reca due epigrafi che intendono essere, almeno a una prima vista, contraddittorie. La prima è di un illustre matematico e rivoluzionario francese, morto in duello giovanissimo, nel 1832: dichiara inseparabili sentimenti l’odio del presente e l’amore per l’avvenire, e amare l’avvenire sta qui a significare certezza nel progresso. La seconda è di uno dei maggiori giansenisti di Portoreale, vissuto nella seconda metà del Seicento; e mette in guardia il cristiano da una confidenza nel tempo futuro disponibile al ravvedimento, che può essere tentazione diabolica.». Così Fortini nella Prefazione a questa ristampa (1973): F. Fortini Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, pp. 7-8. La prima edizione era stata pubblicata nel 1957 da Feltrinelli.
3. F. Fortini, Dieci inverni… cit., p. 13.
4. Prefazione… cit., p. 11.
5. È il titolo dell’ultima poesia di Foglio di via, da F. Fortini, Foglio di via e altri versi, nuova edizione con una nota dell’autore, Torino, Einaudi, 1967, p. 65.
6. F. Fortini, Il senno di poi cit., pp. 29-30.
7. F. Fortini, Il senno di poi cit., p. 55.
8. F. fortini, Lettera a un comunista, in Dieci inverni… cit., p. 299.
9. F. Fortini, Prefazione… cit., p. 15.
10. Così egli scrive in Che cosa è stato «Ragionamenti», ripubblicato in appendice a «Discussioni» 1949-1953, Edizione integrale. Con uno scritto di Renato Solmi, Macerata, Quodlibet, 1999, p. 379.
11. Vedi su questo punto la sezione Fortini su Panzieri, a cura di Luca Lenzini, in Raniero Panzieri un uomo di frontiera, a cura di Paolo Ferrero, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2005, pp. 266-272.
12. Cito da F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini, Milano, Mondadori, p. CXIV (Cronologia).
13. F. Fortini, Il senno di poi cit., p. 31.
14. F. Fortini, Da un “libro bianco”, in Dieci inverni cit., p. 174.
15. Cito dall’intervista «Fare diversa questa realtà, non farne un’altra» («Religioni e società», 1989) raccolta in F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 561.
16. R. Rossanda, Note sul rapporto tra letteratura e politica, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, p. 220.
17. F. Fortini, Un mancato editoriale del «Politecnico», in Questioni di frontiera. Scritti di politica e letteratura 1965-1977, Torino, Einaudi, 1977, p. 240.
18. F. Fortini, Un mancato editoriale… cit., p. 244 (corsivo del testo).
19. Ibidem (corsivo del testo).
20. F. Fortini, Che cosa è stato il «Politecnico» in Dieci inverni… cit., p. 65.
21. F. Fortini, Albe Steiner [1977] in Franco Fortini Disegni Incisioni Dipinti , a cura di Enrico Crispolti, Macerata, Quodlibet, 2001, p. LXXIII.
[14 aprile 2009]
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