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Ad
amici catanesi: breve storia di una generazione attraverso
due inediti fortiniani.
Anna Carta
Chiunque
si sia imbattuto, come a me è capitato, nello studio delle riviste
politico-culturali degli anni Sessanta, con Franco Fortini ha dovuto
fare i conti da subito e necessariamente. È nota infatti la centralità
del suo pensiero quale si sviluppò dalla fine degli anni Cinquanta – la
sua analisi di processi neo-capitalistici; la sua critica al carattere
integrato della produzione culturale, all’antifascismo come agiografia,
al riformismo della sinistra – per lo sviluppo di tutto un gruppo di
riviste che, nate come periodici culturali, dopo averlo sottoposto a
una verifica di fondo, registrarono il progressivo assorbimento del
dibattito culturale in quello politico. Esempio ne sono «Quaderni
piacentini», la pisana «Nuovo impegno», ma anche «Giovane critica», a
Catania. Attorno a quest’ultima si coagularono le esperienze maturate
all’interno del Centro Universitario Cinematografico di questa città,
organismo a partecipazione studentesca che qui come altrove fu luogo di
dibattiti e occasione di crescita intellettuale. Mentre lavoravo tra le
carte del Centro, tra schede informative dei film da proiettare,
articoli di giornale, bilanci economici e programmazioni dei vari anni
accademici, è saltato fuori un fascicoletto dai fogli ingialliti e
dattiloscritti intestato CUC, datato 1964, intitolato Franco Fortini,
Organizzazioni politiche
e intellettuali di sinistra in Europa negli
ultimi cinquant’anni1. Si trattava del testo integrale di
una
conferenza tenuta da Fortini nel capoluogo etneo l’11 marzo 1964. Un
cartone preparatore, una glossa rispetto ai saggi da lì a poco apparsi
in rivista e poi confluiti in Verifica dei poteri. Ma per me una buona
occasione per tornare indietro nel passato, un’opportunità per
esercitarmi a descriverlo. Il quadro di riferimento generale in cui
collocare questo episodio provinciale è quella precisa fase in cui le
riflessioni di Fortini incrociarono il percorso di alcuni giovani
intellettuali – a Torino, Piacenza, Pisa, o Catania, appunto –
traducendone istanze e aspirazioni in un più chiaro discorso politico.
La storia della ricezione del pensiero politico-culturale fortiniano si
compone di diversi pezzi, tra i quali è possibile aggiungere quella
generazione catanese che diede vita a due delle esperienze culturali
più avanzate della città dal secondo dopoguerra a oggi: il Centro
Universitario Cinematografico e la rivista a esso collegata, «Giovane
critica». Città singolare e “imperfetta”, negli anni Sessanta Catania
andava assumendo le dimensioni di una megalopoli «senza averne le
istituzioni e la cultura politica» e, nonostante piena di potenzialità
e ambizioni, si apprestava a divenire «torpidamente pingue»2. I giovani
catanesi non avevano alle loro spalle la grande fabbrica, come la Fiat
nella Torino dei «Quaderni rossi», né la ricca borghesia agraria, come
Bellocchio o Cherchi a Piacenza; non avevano vissuto vivaci stagioni di
lotta né dentro né contro i sindacati; l’operato dei partiti operai era
avvertito come inefficiente e caratterizzato da una paurosa
arretratezza ideologica e organizzativa. Ma se Piazza Statuto era
lontana, anche a Catania il risveglio politico nacque da un traumatico
fatto di piazza: l’equivalente storico dei fatti torinesi
(l’equivalenza risiede nella forte funzione di rottura esercitata dai
due eventi) fu qui rappresentato dagli scontri tra polizia e
manifestanti che nel luglio 1960, come altrove in Italia, si conclusero
con un tragico elenco di vittime. A Catania si chiamò Salvatore
Novembre, giovane edile disoccupato. Ci sono morti che «segnano le
fratture e le svolte biografiche, o tracciano le linee di demarcazione
dei conflitti storici con la loro tacita e perentoria richiesta di
vendetta»3. I fatti del luglio 1960 a Catania ebbero l’effetto di
orientare tutta una serie di biografie, che non si sarebbero forse
incrociate altrimenti, in direzione di un più preciso impegno politico.
Punto di svolta, momento di rottura: questo il peso che quell’episodio
avrebbe dovuto assumere all’interno di una ricostruzione della storia
novecentesca di Catania che lo storico (ed ex redattore di «Giovane
critica») Nino Recupero progettava di scrivere4. Punto di svolta ed
evento rivelatore per Franco Fortini, che dieci mesi dopo i fatti di
luglio concepisce il testo per un film documentario sul fascismo e la
guerra dal titolo All’armi siam fascisti, per la regia di Cecilia
Mangini e Lino Dal Frà. In quell’occasione Fortini si era trovato di
fronte alla necessità di adeguare al mezzo cinematografico gli
espedienti già utilizzati in poesia per evitare ogni rischio di
immediatezza, rischio da lui sempre lukacsianamente scongiurato. La
soluzione adottata sarà quella di far stridere tra loro le immagini di
repertorio e il testo. Il cozzo tra momento visivo-emotivo e
critico-razionale avrebbe prodotto un effetto tipico dello straniamento
brechtiano e raggiunto un obiettivo persuasivo-dimostrativo. Nel 1963
il CUC di Catania procurò una copia del documentario e ne pubblicò il
testo sul «Quaderno» n. 3 del Centro5. L’impatto della pellicola sui
giovani studenti catanesi fu fortissimo, come probabilmente altrove,
visto il grande successo che essa riscosse in Italia. Ma con un
elemento aggiuntivo. Dopo tre anni ritornava proiettato sullo schermo
il corpo esangue di Salvatore Novembre, ingigantito dalle parole di
Fortini che chiudevano il film: «La vostra coscienza cosa ha da dire?
Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il vostro destino è solo vostro.
Rispondete». All’armi siam fascisti si conclude così – ma è una falsa
chiusura, in puro stile fortiniano – con una domanda facilmente
interpretabile come un appello da quanti quella sera assistettero alla
proiezione. L’analisi del presente acquista senso in quanto scavo nel
passato e apertura al futuro. E i soli lettori che possano fare della
poesia e dell’arte un uso non mistificato sono coloro che vedono già
nella struttura del mondo attuale lo schema di quello futuro.
In
che modo riconnettere l’episodio della conferenza che Fortini è
invitato a tenere a Catania al quadro più generale del suo percorso
intellettuale e specialmente al valore assunto nella sua biografia
dall’anno 1964? Per Fortini, «quella società è ben ordinata (o è alla
vigilia di una profonda rivoluzione) nella quale maestri veri e
discepoli veri si cercano e si trovano a vicenda; ognuno, spesso, sotto
la qualifica dell’altro»6. Ogni processo rivoluzionario non può essere
scompagnato da un enorme dialogo ininterrotto, «in cui ognuno insegna
ad ognuno e ognuno parla a tutti e tutti si impara da tutti»7. Questa
la centralità, da un punto di vista gnoseologico ed etico, assunta
all’interno del sistema di pensiero fortiniano dal dialogo e
l’interlocuzione, dalla discorsività e la persuasione, qualità in cui
Fortini faceva consistere l’intelligenza. Sono concetti tradotti in
immagini e versi nella poesia Il bambino che gioca:
Il bambino smise di giocare
e parlò al vecchio come un amico.
Il vecchio lo udiva raccontare
Come una favola la sua vita.
Gli si facevano sicure e chiare
cose che mai aveva capite.
Prima lo prese paura poi calma.
Il bambino seguitava a parlare.
Il
rapporto tra generazioni è visto qui a parti invertite: è il bambino a
raccontarsi al vecchio, a possedere un passato e una chiave per aprire
la porta del futuro. La rivelazione della vita del bambino, che
intercetta il passato del vecchio e lo proietta in avanti, nel futuro
di entrambi, è detta favola, e non fiaba perché la vita altrui, la
storia dei prossimi – così pensava Fortini poeta – ha lo stesso valore
dell’exemplum: contiene verità «materiali», commensurabili, e nello
stesso tempo è allegoricamente altro. La posizione dell’aggettivo «sua»
conferisce poi al verso 4 un valore ambiguo, credo volutamente: la vita
di cui si parla è anche quella del vecchio, coagulata e velata in
figure all’interno di quella del bambino. Le due vite si confondono, si
spiegano a vicenda nel flusso continuo e amichevole di un dialogo
ininterrotto. «Il bambino seguitava a parlare».
Le vicende
biografiche che provarono duramente Fortini attorno al 1964 giocarono
un proprio ruolo per la maturazione in lui di una determinata idea del
rapporto discepolo-maestro. Nel corso di quell’anno si consumò un
passaggio drammatico nella vita dello scrittore, più volte da lui
rievocato e sempre con amarezza. È il momento in cui chiude i conti con
tutta un’area intellettuale – i Solmi, i Panzieri – che aveva
intrecciato le proprie vicende a quelle dei «Quaderni rossi», aveva
capito di quali mutamenti in atto fossero stati espressione gli
scioperi del 1962 a Torino, aveva sostenuto presso Einaudi la
pubblicazione di un testo controverso come L’immigrazione meridionale a
Torino di Goffredo Fofi. A quella frattura corrispose anche una brusca
interruzione dei rapporti di collaborazione – prima molto prolifici –
tra Fortini e i quotidiani nazionali e l’improvviso incombere di gravi
difficoltà pratiche: «Nel 1964, a 47 anni, sono stato licenziato quasi
contemporaneamente da Olivetti e da Einaudi. È stato un brusco
declassamento […] feci la scuoletta a Lecco. Bene: se non avessi fatto
quell’esperienza tremenda e positiva, non avrei capito nulla. Mi trovai
a contatto di gomito con tanti giovani che si occultavano
nell’insegnamento: era la generazione del ’68. Scoprii la bellezza di
essere un intellettuale frate, non prete: fra Cristoforo, non Cardinale
Borromeo»8. Tra il 1962 e il 1964, le difficoltà materiali e
l’isolamento assoluto avevano creato per lui e per pochi altri
intellettuali quella che Fortini chiamò «una zona di verità». Dopo il
grigio commiato agli amici di prima, agli ex compagni di strada (Agli
amici, 1957); dopo aver decretato la fine dell’intellettuale
funzionario e organico; dopo avere consegnato il proprio congedo dagli
intellettuali alle pagine di «Quaderni piacentini» (1963), essere
intellettuale frate significò per Fortini fare come colui che «senza
alcun mandato, alla fine di una riunione alza il dito e pone alcune
domande»9. Essere uno che dialoga, dunque. E per non allontanarsi dalla
metafora cristiana, nel 1965, lui che nel 1958 aveva scritto di voler
stare dalla parte degli invisibili, affermerà che l’unico modo per
obbligare gli altri a tenere conto di noi, come per duemila anni
predicato dal Cristianesimo, è quello di lasciarsi andare, mettersi da
parte, savèr de non esser gnente per dirla con Noventa, stare fuori
dalla strada, e proprio là magari correre il rischio di incontrare il
«partito» e riconoscerlo come tale.
Quando arrivò a
Catania, Fortini stava pertanto affinando la propria capacità di
ascolto e comprensione della scelte e degli atteggiamenti altrui,
specie dei più giovani. Nel corso di quell’anno esercitò questa sua
volontà a Lecco come a Catania – ma anche in piccoli centri come Ragusa
e Vittoria, dove, sempre per invito del CUC tenne altre due conferenze
dal titolo La cultura italiana durante il fascismo10. Non sbagliava
Muscetta, che in quegli anni insegnava Letteratura italiana presso la
Facoltà di Lettere di Catania, quando definiva i giovani del CUC e
redattori di «Giovane critica» «fortiniani scalzi», alludendo a un vero
e proprio apostolato dello scrittore in quella città11. I «fortiniani
scalzi» consideravano i Dieci inverni come un Vangelo antistalinista.
Dall’incontro tra Fortini e quei giovani nacque una poesia, Ad amici
catanesi composta forse in albergo e circolata per anni a Catania
all’interno di una stretta cerchia di persone gravitanti attorno al
CUC. Una poesia che si colloca in mezzo a quel gruppo di componimenti
che Fortini nel 1965 chiamerà «occasionali»: tutta una produzione
«diversa (non voglio dire minore), poesie d’occasione, o scherzose o
ironiche, quadri locali, epigrammi»12. Quadri locali. Catania è una
conca, un fosso che nasconde la vista della Storia; oppure una
superficie «convessa», a tracciare i contorni di un cerchio, immagine
di immobilità. Da quella posizione non è solo la Storia a essere celata
alla vista dei giovani, ma sono soprattutto questi ultimi, uomini e le
donne, gli «esistenti-inesistenti», a essere invisibili a lei, al suo
incessante procedere. Si leggano le cinque quartine per intero:
Giovani, vecchi, esistenti, inesistenti
in un contesto di fatiche e di rabbia
della vostra fede nervosa stupisco
che in parte la fossa vi cela del secolo
e mi chiedevo quale dispersione
d’accanimento o bianco miele
su per le membra minute delle ragazze
necessari vi erano e quanta
potenza d’immaginazione
vi dovete o di nevrosi e decisione
d’intelligenza e rapita volontà
per tenere la convessa realtà,
ostinarvi a spezzarne la scaglia,
lo spettacolo impietrito sgretolare
degli dei, il teorema del mare
il violetto del monte,
le lapidi che il fico macchia…
Adempienti con me pazienti uomini
con spine di gioia, non cedete,
dall’auto ridete chiamando sotto casa la notte13.
Le
immagini usate per descrivere la realtà raffigurano uno spazio
astratto, di antica bellezza, dove la natura vegetale e minerale –
presenza costante nei componimenti di Fortini – convive con la cultura:
lo spettacolo impietrito degli dei, il violetto del monte, il teorema
del mare, le lapidi che il fico macchia… Il tempo è quello del mito,
non della storia. Da questa posizione insolita si esercita l’azione
tenacemente volontaristica (ne sono segno la fede nervosa, la
dispersione d’accanimento, la potenza di immaginazione, la decisione
d’intelligenza e la rapita volontà) di un gruppo di giovani che si
ostina a «spezzare la scaglia» di una realtà impietrita. È il tema
fortiniano della continuità, che passa attraverso il momento di
discontinuità, la distruzione della casa paterna, la negazione. Dopo
l’«ora della basse opere», dopo le immagini crudeli e desolate della
raccolta Una volta per sempre, sembrerebbe riacutizzarsi in Fortini il
«vizio della speranza, dell’attesa», la tentazione da cui non riuscì
mai a stare lontano: aspettare l’evento, il passo della Storia. I
giovani catanesi hanno i tratti della poesia Un’altra attesa:
tumultuosi, appassionati. Quanto diversi dagli amici di prima, dai
disforici ex compagni di strada da cui Fortini si era congedato in Agli
amici. Sia in questo componimento che in Ad amici catanesi ritornano le
voci dei compagni: ma «lontane come fili del tramontano tra le pietre»
quelle dei primi; ridenti, gioiose, pungenti (le spine rinviano al
topos fortiniano della rosa) quelle dei giovani. Spesso in Fortini la
giovinezza si manifesta attraverso il riso, il suono della voce, i
movimenti; essa somiglia a quell’«emblema di felicità, di leggerezza,
di liberazione» che nella sua produzione poetica è rappresentato dalla
rosa, immagine che spesso Fortini contrappone al gelo o al sasso14.
Ritorna dunque nel componimento occasionale del 1964 una tensione verso
il futuro (il presente di domani nato dalla dissoluzione del presente
di ieri), che per Fortini è tempo della verità e della gioia,
dell’adempimento-dissolvimento, del riscatto di presente e passato. È
luogo inesistente che esiste. Per questo gli amici catanesi – quegli
inesistenti ma adempienti amici – gridano in direzione del buio, della
notte.
A giudicare dal trattamento che il maggiore quotidiano
cittadino riservò alla notizia della conferenza, l’arrivo di Fortini a
Catania non fu salutato come un evento culturale né dalla città, né dal
suo tradizionale ceto intellettuale, ma esclusivamente da quel piccolo
nucleo minoritario – una «setta» avrebbe detto Fortini – che gravitava
attorno al CUC e alle sue pubblicazioni periodiche. Un gruppo che
grazie alle proiezioni settimanali di film introvabili, alle accese
discussioni che le accompagnavano e – non meno importante – alla
presenza di Carlo Muscetta all’Università, andava progressivamente
configurandosi come agente di mediazione delle istanze intellettuali
più avanzate nel resto del paese, aprendo all’interno della città uno
spazio di documentazione e dibattito altrimenti irrealizzabile. E
mentre la cultura cittadina scontava l’assenza di istituzioni culturali
aggiornate – soprattutto di un’editoria con standard industriali e di
una valida e diversificata stampa periodica – dalle colonne di «Giovane
critica» avevano già avuto modo di esprimersi critici cinematografici
come Pio Baldelli, Lorenzo Pellizzari, Adelio Ferrero, Paul Louis
Thirard; Leonardo Sciascia vi aveva affidato le sue «ragioni di chi
resta» e un saggio su Manuel Azaña. In tale contesto, il 12 marzo 1964,
il quotidiano «La Sicilia» liquidava la notizia della conferenza
dedicando all’evento uno scarno trafiletto. Nessun accenno ai motivi
per cui si decise di rinviarla di un giorno e spostarla di sede, al
perché l’allora rettore dell’Università si fosse rifiutato di concedere
uno spazio di proprietà dell’Ateneo, il Museion, perché vi si
svolgessero – parole sue – «manifestazioni politiche». Così, senza
volerlo, il convegno si svolgeva in ossequio a quella «attitudine alla
separazione, sola via a nuove unità» di cui parlava Fortini in quegli
anni. Di poco discosta dal cuore della cultura istituzionale della
città, in una appartata traversa della letteraria via Etnea, la Sala
Spinella fu presa in affitto dai membri del CUC per l’occasione.
Qualche anno prima, in quella stessa sede, Ester Fano, allieva di Lucio
Colletti, era stata invitata a presentare il primo numero dei «Quaderni
rossi». Ora Fortini vi esponeva la sua tesi della fine del mandato
sociale degli scrittori, sottolineava i limiti della interpretazione
lukacsiana di antifascismo e faceva proprio, rivolgendolo all’uditorio,
l’accorato appello con cui Brecht, nel 1935, a Parigi, aveva chiuso il
proprio intervento al Congresso internazionale degli scrittori
antifascisti: «Compagni! Parliamo dei rapporti di proprietà!». Ad
aumentare l’effetto di clandestinità, l’atmosfera protocristiana da
catacomba, chi a quella conferenza riuscì ad assistere ricorda una sala
gremita e un uditorio in religioso, composto silenzio. Lo schema della
conferenza riproduce, anticipandola, l’articolazione tripartita di cui
si comporrà il saggio, centrale nel pensiero fortiniano di quegli anni,
Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, pubblicato in
Verifica dei poteri (1965), il libro che – insieme a Scrittori e popolo
di Asor Rosa e a La forza lavoro intellettuale di Gianni Scalia –
determinò una sorta di mutamento di paradigma all’interno della cultura
di sinistra in Italia. Simili al saggio sono poi l’impostazione degli
argomenti, il sistema di esemplificazioni e il formulario utilizzato.
La prima parte di Mandato degli scrittori, dal titolo Brecht e l’origine
dei Fronti popolari, apparve poi per la prima volta nel 1964 sul n. 4
di «Giovane critica», privilegio eccezionale che determinò per la
rivista catanese nata nel 1963 un primo scatto in avanti delle vendite
e rappresentò una anticipazione della prossima svolta in direzione di
un maggiore impegno politico. Presto i collaboratori di «Giovane
critica» non si chiameranno più solo Baldelli, Ferrero o Sciascia, ma
anche Roversi, Luperini, Asor-Rosa, Tronti, Scalia, Rieser, Masi, Della
Mea, Fofi. Si cercheranno rapporti più stretti con i «Quaderni
piacentini» e uno spazio all’interno del dibattito serrato che in
quegli anni si svilupperà proprio nelle riviste della cosiddetta «nuova
sinistra». Per questi nuovi gruppi intellettuali, Fortini fu maître à
penser e presenza irrinunciabile. Un intellettuale che, rigorosamente,
insegnava a pensare la realtà come contraddizione, a osservarla nelle
sue pieghe, a scorgerne le indicazioni per il futuro; a non venire mai
meno all’obbligo di «traduzione del vero, a quella circolarità che sola
può mantenerlo vivo»15. Ogni pedagogia che voglia essere rivoluzionaria
– lo avevano capito gli amici catanesi? – dovrà fondarsi sul nesso
inscindibile tra traduzione e circolarità del vero, coincidere con il
realizzarsi di una «generalizzata pedagogia di tutti su tutti».
Non
stupisce l’avere scoperto che – a vent’anni di distanza – Fortini poté
ritrovare il filo di quella «conversazione a Catania» apparentemente
interrotta nel colloquio mentale con il giornalista catanese Riccardo
Orioles, comparso in tv per commentare a caldo la notizia del barbaro
assassinio mafioso di Pippo Fava, direttore de «I siciliani»:
Al redattore de «Il siciliano»
che è comparso in televisione la sera
del 7 gennaio 1984
e che forse si chiama Ordales o Rosales
vorrei dire la mia riconoscenza
per l’intelligenza e l’esattezza,
quelle che dal fondo della negazione
e dello sconforto
fanno capire che nulla è morto mai veramente
se c’è la volontà di capire
tranquillamente – e di volere la verità.
A quel redattore che parlava da Catania
come da Managua, da Ciudad de Guatemala,
la riconoscenza, la gratitudine e anche il silenzio
di un vecchio che venti anni fa a Catania
palò a cento o duecento studenti, forse anche a lui;
e sa di essere stato compreso. Con lui
tutto continua16.
Fortini
dovette pensare che dopo vent’anni il cerchio del dialogo – ma la
speranza, così lui pensava, non si dà mai nel futuro più immediato – si
fosse chiuso. Ma a condizione di riaprirsi subito. Dopo la gratitudine
e la riconoscenza, al vecchio poeta poté bastare il silenzio. Il
testimone, ai suoi occhi, era stato consegnato.
note
1. Una
copia di questo testo, ricavato dalla sbobinatura del nastro contenente
l’audio della conferenza, è stata depositata nel 2004 presso il Centro
studi Franco Fortini.
2.
G. Giarrizzo, Catania,
Bari, Laterza, 1986, p. 313.
3. A. Berardinelli, Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 75.
4. Cfr. A. Recupero, Il CUC catanese e gli altri circoli, in «Pagine dal sud«, X, n. 3, dicembre 1994.5. Per il testo del documentario si veda F. Fortini, Tre testi per film, Milano, Edizioni Avanti!, 1963.
6. F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste (1952-1994), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 263.
7. Ivi, p. 513. Ivi, p. 513.
8. Ivi, p. 345. Corsivo nostro.
9. Ivi, p. 275.
10. Anche di questa conferenza esiste una registrazione, recentemente depositata presso il Centro Studi Franco Fortini.
11. L’espressione di Muscetta è ricordata da Giampiero Mughini, all’epoca dirigente del CUC e redattore di «Giovane critica», in un’intervista rilasciatagli da Fortini per «Mondoperaio» nel 1980, poi in Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit.
12. Ivi, p. 84.
13. Il testo di questo inedito è stato depositato presso il Centro studi Franco Fortini nel 1994. Il testo di questo inedito è stato depositato presso il Centro studi Franco Fortini nel 1994.
14. R. Luperini, Fortini e la poesia come contraddizione, in Id., Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, p. 701.
15. Così si concludeva il passo fortiniano citato sull’invito alla conferenza organizzata dal CUC. Sull’invito erano inoltre riportati alcuni suoi dati bio-bibliografici.
16. Questo inedito, firmato Milano, 7 gennaio 1984, è apparsa qualche anno fa sul sito de «L’erroneo», periodico catanese on line, su autorizzazione di Riccardo Orioles. Una copia è stata recentemente depositata presso Il Centro studi Franco Fortini.
[22 luglio 2010]
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