home> fortiniana> Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese: Franco Fortini e gli “intellettuali periferici”
Un
«filo» tra Milano e Cologno Monzese: Franco Fortini
e gli “intellettuali periferici”
Ennio Abate
non brilla e che fu
tuo, mio
(F. Fortini, Poesie inedite)
Nel 1991 avevo progettato uno studio ampio su Fortini e la sua opera.
Gli trovai anche un titolo che chiariva il senso dalla mia riflessione,
Nei dintorni di Franco Fortini1.
Per molti anni
però, intervenendo cambiamenti che mi hanno distratto o
hanno imposto continue correzioni alla ricerca, sono riuscito ad
accumulare soltanto moltissimi appunti. Pur con residue esitazioni, mi
decido ora a pubblicare questa riflessione sul mio rapporto
(immaginario/reale) con Fortini, partendo esclusivamente da vari
documenti quasi tutti inediti e riferibili agli incontri che ebbi con
lui nell’ultimo quindicennio della sua vita.
Rispetto ai carteggi importanti nella sua biografia di scrittore,
quello con me tratta temi e fatti rilevanti soprattutto per me e per
alcuni amici, sconosciuti ai più ed esterni alla cerchia
degli studiosi e dei collaboratori di Fortini, dei
“periferici” appunto2.
Tuttavia,
dichiarata la responsabilità tutta mia di questo resoconto
biografico e storico, lo propongo, convinto che qualche storico della
cultura potrà trovarne interessante proprio
l’eccentricità nella vita di Fortini.
Di più: il carteggio e gli incontri tra me (e, in certi
casi, i miei amici) e Fortini appartengono a un periodo
storico (1978- 1991 circa), anni che videro la definitiva sconfitta
delle istanze sia “innovatrici” che
“rivoluzionarie” del biennio
’68-‘69 e l’avvio del declino
inarrestabile della sinistra3
e affronta precise questioni: la
solidarietà possibile verso un
presunto “terrorista di sinistra”; il fare
rivista o
cultura in periferia da parte di un
gruppo di intellettuali massa; il valore autentico o compensatorio
della poesia. I materiali che presento evitano le astrazioni
dell’annoso, retorico e spesso inconcludente discorso sugli
intellettuali. E spero che vengano considerati oneste testimonianze di
epigoni della cultura di sinistra dell’ultimo Novecento.
In
una parabola discendente. Cronaca di un rapporto
piene di un lontano sociale
già precipitavano in minoritaria lucidità
ma resistevano ancora, mentre precipitavano
(E. Abate, Prof Samizdat)
Nel tumulto
del 1968. Io,
Fortini e gli altri
Ho visto per la prima volta Franco Fortini nel 1968 (in marzo, credo)
in un capannello davanti all’Aula magna
dell’Università Statale di Milano occupata da
pochi giorni. Di pomeriggio c’erano stati scontri tra gli
studenti e la polizia. Il gruppo commentava l’accaduto e tra
loro – cosa rara in quei giorni - c’era un adulto.
Delle sue parole afferrai queste: «Non bisogna strusciarsi
addosso ai giovani». Mi parve una raccomandazione rivolta ad
altri, ma anche a se stesso. Seppi poi che era Fortini.
Sempre alla Statale di Milano, mesi prima, nel 1967, nel bar, durante
la prima veglia per il Vietnam a cui partecipavo in vita mia,
attendendo il ritorno della delegazione di studenti che trattava col
rettore affinché potessimo restare nell’edificio
fino a mezzanotte od oltre, avevo parlottato con uno studente di
filosofia, un piacentino, rimasto per me senza nome. Aveva
sottobraccio, assieme ad altri libri, Verifica
dei poteri;
e mi
consigliò di leggerlo. Ma passarono anni prima che lo
facessi.
Questi due ricordi per dire che dal 1968 al 1977 all’incirca
- gli «anni dei movimenti» - Fortini fu per me
soltanto il nome di uno scrittore, il volto di quel signore ascoltato
per pochi minuti quella sera e rivisto poi in foto –
meditabondo, le spalle poggiate al muro dell’Aula magna
– su un opuscolo studentesco, che avevo acquistato e ho
perduto in qualche trasloco.
Era per me una delle voci del coro della sinistra (storica, nuova o
“rivoluzionaria”, come allora si diceva) e durante
il decennio seguente, pur leggendo suoi articoli e saggi su
«Quaderni Piacentini» o su «il
manifesto»4,
sottolineando brani che mi colpivano e
incamerando idee e stile, fui preso da altro: il movimento, la
militanza, il lavoro, il completamento della tesi, la famiglia. I suoi
messaggi
in bottiglia restarono
mescolati a quelli di tanti altri5.
Per la mia formazione meridionale6,
le interruzioni e i cambi
di direzione subìti dai miei studi sia nel primo periodo
giovanile che a causa del trasferimento dal Sud (Salerno) al Nord
(Milano)7,
il tardivo apprendistato politico segnato prima dai
contatti “carbonari” con i trotzkisti milanesi
fondatori di «Avanguardia Operaia»8 e
subito dopo dalla partecipazione all’occupazione della
Statale, ero esterno agli ambiente milanesi frequentati da Fortini.
Di più: rivedendomi in quegli anni, penso di essere stato
una sorta di Renzo Tramaglino. Capitato di botto in un tumulto
popolare, mi orientai come potevo per dare senso a slogan, leader,
discorsi ascoltati in assemblee e “controcorsi”,
sottoponendomi a una febbrile «pratica sociale»,
che, nel mio caso, andava dalla stesura in tempi brevissimi della tesi
di laurea, alla presenza nelle manifestazioni di piazza, alle riunioni
da piccola setta del CUB SIP (ne era sorto uno proprio
nell’azienda telefonica dove lavoravo ad ore); e, a Cologno
Monzese, dove abitavo, alle iniziative nei quartieri, nelle scuole e
davanti alle piccole fabbriche di un gruppo
operai-studenti da
me
fondato assieme ad altri.
In quegli anni, dunque, Fortini non era per me quello che era
già per quelli a lui più vicini: un maestro o un
modello esemplare di «intellettuale del
‘68»9.
Non per un rifiuto preconcetto
dell’autorità o di guide (in università
mi ero rivolto spesso per consigli allo storico Della Peruta, col quale
avevo pensato di fare la tesi sul Gramsci teorico degli intellettuali,
poi abbandonata per una sui Quaderni
Rossi con
Franco Catalano). E
nella mia lettura dei suoi scritti non mancavano impuntature
antintellettualistiche, da militante di «Avanguardia
Operaia», tra i cui dirigenti il gruppo del
«manifesto», al quale Fortini collaborava, era
oggetto di critiche sospettose.
Dopo la
sconfitta.
«Che fare?» in periferia. Una
lettera del 1978
La mia prima lettera a Fortini è del gennaio 1978. Avevo 37
anni, lui 51. Era la prima volta in vita mia che mi rivolgevo a uno
scrittore noto. L’anno precedente - insegnavo allora
all’ITIS di Sesto S. Giovanni – avevo letto
Questioni
di frontiera10,
trovandovi un rafforzamento della
scelta di abbandonare la militanza di partito11
per
proseguirla12
con minori vincoli esterni e autocensure in campi
- letteratura, poesia, scrittura, disegno- trascurati, ma mai
abbandonati, nel decennio precedente. Scrivere proprio a Fortini,
mandandogli quella
poesia13
e ponendogli nella stessa poesia
quel problema fu, dunque, per me un’azione meditata.
Negli anni successivi al 1978, dopo la sua pur pronta e incoraggiante
risposta, non feci altri tentativi di avvicinarlo di persona
né per chiedergli altri pareri su mie poesie o altri
scritti.
Scelsi d’impegnarmi in una lettura delle opere sue che non
conoscevo oppure che uscivano nel frattempo14;
nell’esplorazione del loro retroterra culturale (specie
tedesco, a me poco noto) e lo seguii durante varie conferenze a
Milano15
mescolato nel pubblico, mentre nel mio diario
s’infittirono i richiami a lui, le citazioni, gli abbozzi di
commento, l’annotazione di sogni in cui compariva il mio
fantasma di lui.
A non cercarlo ancora contribuirono anche gli eventi esterni e il
clima politico drammatico che, proprio in quel
1978, si fece tragico. La mia prima lettera a Fortini è del
gennaio 1978. Due mesi dopo, a marzo, Moro fu rapito dalle
«Brigate Rosse»; e l’inasprimento
repressivo che seguì fu pesantissimo: rese, ad esempio, vane
le intenzioni di fare rivista annunciate in quella mia lettera. Alcuni
degli amici su cui contavo, infatti, entrarono nel PCI e mi ritrovai
solo. Poi, dal 1980, il mio impegno fu assorbito dal
«caso» di cui ora dirò, occasione per il
mio primo contatto diretto con Fortini.
Una sera
d’ottobre del 1983 a Cologno Monzese. Il
«grido» del ’68 incarcerato.
Nell’autunno del 1983 andai, infatti, a casa di Fortini in
via Legnano 28, per chiedergli di presentare con me a Cologno Monzese
un libro, Le
nude cose. Lettere dallo “speciale” di
Piero Del Giudice16, che
- mio collega di lettere
all’ITIS di Sesto S. Giovanni, fondatore della CGIL Scuola,
ex dirigente di Lotta Continua, animatore poi di riviste e iniziative
di quell’area politica che verrà chiamata
dell’«Autonomia» – era stato
accusato di «partecipazione a banda armata» e dal
1980 si trovava detenuto nei «carceri
speciali». Dopo alcune domande indagatrici sul mio
conto (Fortini mi spiegò poi che nei mesi o nelle settimane
precedenti aveva subito una perquisizione della sua casa)
rassicuratosi, accettò.
In quegli anni («di piombo», secondo
un’abusata retorica), di fronte al ricomparire nei conflitti
di formazioni minoritarie armate di sinistra (in Germania e in Italia
in particolare), i partiti della sinistra storica e nuova negarono che
il fenomeno fosse ricollegabile almeno in parte alla loro tradizione
(Rivoluzione russa, Resistenza).
A Fortini mi ero rivolto, dunque, perché era tra i pochi
che, pur critico del movimento del ’77,
dell’Autonomia e della «falsa guerra
civile» praticata da quelle formazioni, non
fletteva da rigorose posizioni di garantismo giuridico e insisteva a
ricordare quanto dissennato e insidioso fosse un astratto
“rifiuto della violenza” nella storia.
Il suo nome s’era affacciato anche nelle lettere che
scambiavo con Del Giudice, prima che ritrovassi un intervento
proprio di Fortini in coda a Le nude
cose21
o andassi in via
Legnano per proporgli l’iniziativa a Cologno Monzese. Del
Giudice, infatti, lo conosceva da più tempo di me, avendolo
incontrato in precedenti iniziative culturali, in particolare nella
Svizzera italiana. Sapevo che il loro rapporto non era stato di grande
sintonia, ma in quel momento Fortini era, anche per Del Giudice, uno
dei pochi intellettuali italiani a cui, sicuro di un ascolto, poteva
rivolgersi.
La serata del 23 ottobre 1983 fu un fallimento: per come si svolse e
per i suoi strascichi. Toccai con mano, malgrado il sostegno generoso e
affettuoso venutomi dalla presenza di Fortini
all’iniziativa, l’impossibilità di
occuparsi dall’esterno dei partiti e per giunta in periferia
della repressione politica in atto in quegli anni.
Il clima fu catacombale. Nessuno dei dirigenti del PCI o del PSI di
Cologno Monzese, che pur avevano concesso il patrocinio alla mia
iniziativa, vi partecipò22. Tra
la decina
di presenti c’erano soprattutto parenti o amici di
«extraparlamentari» in carcere arrivati da Milano.
L’intenzione di far interloquire su un tema, che pungeva
ciascuno in parti vitali del proprio sé politico, il
“dentro” e il “fuori” dal
carcere – come illudendomi scrissi nella mia introduzione
- fallì.
Malgrado la delusione, pensai di pubblicare lo stesso un
quaderno-samizdat
sull’incontro; ma
finii per condividere le
riserve che Fortini mi ribadì, anche con
ineccepibili obiezioni formali sulla qualità scadente del
materiale emerso dall’incontro (Cfr. lettera del 25 aprile
1985). Il quaderno, che avrei dovuto rimaneggiare, è rimasto
tra le mie carte private a ricordarmi penosamente quant’ero
stato solo in quel mio tentativo. Presto lasciai cadere anche
l’intenzione di prendere contatto con gli avvocati milanesi e
di mettermi a studiare le carte processuali di Del Giudice, condannato
in prima istanza. Il 21 gennaio 1986 egli, in base a provvedimenti
giudiziari su cui non mi sono mai più informato, usciva dal
carcere. Già il primo incontro con lui da
“libero” mi confermò
l’esaurimento del nostro difficile rapporto23.
Sì
col dolce dir m’adeschi... Due visite
a Fortini nel 1985 e nel 1986
Su mia richiesta, incontrai due volte da solo Fortini nella sua casa di
Via Legnano nel 1985 e 1986.
La prima volta, il 28 maggio 1985, mi accolse facendomi segno di non
far rumore e di andare nell’ultima stanza in fondo al
corridoio.
Dapprima pensai che ci fosse qualcuno ammalato; poi capii che era a
telefono. Nella stanza notai uno scaffale con l’Enciclopedia
Einaudi,
l’Europea
della Garzanti e i quattro
volumi appena usciti
della
Letteratura italiana di Asor
Rosa.
Quando tornò da me, indossava una tuta blu. Gli feci leggere
la lettera in cui Del Giudice dichiarava la sua innocenza.
Borbottò qualcosa e s’informò
sull’uscita della sentenza. Secondo lui in
quell’occasione Del Giudice o i suoi avvocati avrebbero
dovuto pubblicare un memoriale. Sarebbe servito da base per una
iniziativa pubblica. Mi fece poi un lucido quadro dei rapporti di forza
esistenti in quel momento tra i vari partiti, valutando le convenienze
che ciascuno di essi poteva avere o meno a sollevare il problema dei
detenuti politici.
Secondo lui, nei mesi precedenti l’avvio di una soluzione
politica era stato interrotto da qualcosa di inspiegabile.
Affacciò l’ipotesi di ordini dagli USA,
collegò la posizione degli Americani al mancato o totale
allineamento dell’Europa nei loro confronti e mi
ricordò
l’esplicita volontà di Reagan di rispondere con la
rappresaglia, qualora le forze americane avessero subito degli
attacchi; cosa già capitata e forse anche più
spesso di quanto si sapesse, aggiunse.
A suo avviso, stavano maturando nuove scelte politiche.
Considerò sia l’ipotesi di un ulteriore
rafforzamento dell’ala craxiana ai danni del PCI sia quella
di una
nuova forma di “compromesso storico", nel caso di un
rafforzamento del PCI. E concluse che, prima della fine della
legislatura con le elezioni del 1986, non c’era alcuna
possibilità di intervenire sul problema dei detenuti
politici, anche perché non si vedeva in giro una grande
inventiva politica.
Andò poi a prendere e mi lesse, commentandolo, un
documento-lettera di Toni Negri, il quale invocava iniziative da parte
di «tutti gli uomini di buona volontà»
per «il ritorno alla vita civile» dei rifugiati in
Francia. Mi confidò che la Rossanda non voleva impegnarsi. E
pure lui condivideva quel rifiuto.
A parte Negri, della cui levatura intellettuale aveva stima, si disse
ostile, per motivi culturali di fondo più che immediatamente
politici, agli intellettuali francesi aggregatisi attorno ai fuorusciti
italiani. Li considerava dei nouveaux
philosophes,
degli anticomunisti,
dei neosurrealisti, che si muovevano fra sociologismi e psicanalisi
senza avere una visione realistica della situazione, specialmente di
quella italiana.
Mi portò l’esempio del convegno tenutosi nel
1984 su Pasolini. Egli vi aveva partecipato (mi promise di
darmi il
suo intervento) e aveva contestato la tesi, sostenuta dai francesi, di
un Pasolini unico oppositore di un regime ormai fascista.
All’opposto, per lui, Pasolini negli ultimi anni della sua
vita era stato pienamente accolto nel sistema, anche se aveva nemici
fra i fascisti.
Rileggendomi poi la lettera di Negri, sottolineò il suo
dissenso su singoli punti: l’uccisione di Greco a Trieste24
interpretata come avvertimento a quella parte della magistratura
più aperta ad un ripensamento delle pesanti condizioni
carcerarie degli accusati di terrorismo; l’accusa a Pertini,
impuntatosi sull’incontro De Michelis-Scalzone25,
di essersi
voluto far pubblicità in vista del rinnovo del mandato
presidenziale; la genericità degli interlocutori a
cui Negri rivolgeva il suo appello.
Era però d’accordo sull’obiettivo
indicato da Negri: creare
gruppi d’opinione che agitassero il tema
dell’uscita dalla legislazione
speciale. E m’invitò a muovermi, raccogliendo
informazioni
su cosa era già stato fatto sulla questione. Io gli nominai
la rivista «Antigone» che, pur da incompetente in
materia giuridica, cercavo di leggere; e gli accennai
l’intenzione di prendere contatto con gli avvocati milanesi
di Del Giudice e di mettermi a studiare le carte processuali che lo
riguardavano.
In quell’incontro mi parve che Fortini seguisse con grande
realismo l’andamento della politica italiana. Mi parve pure
convinto che un dibattito approfondito sul terrorismo avrebbe spaccato
il PCI, che i processi contro i promotori della lotta armata erano
stati condotti da giudici di parte e che, quindi, la
«verità processuale» era dubbia e solo
funzionale alla politica dei partiti più forti.
Più scettico rimasi di fronte al tipo di critica tutta
culturale che muoveva all’«Autonomia».
Non capivo perché una tradizione culturale (la futurista, la
surrealista) dovessero essere in modo lineare
«brodo di cultura» di spinte inevitabilmente
estremizzanti. Si poteva criticare l’Autonomia soprattutto in
base alla analogia che egli vi vedeva con le avanguardie surrealiste?
Davvero era una semplice riedizione di quelle?
Nella seconda visita, l’8 giugno 1986, Fortini mi
raccontò di un suo viaggio a Barcellona. Nella
città aveva notato la cancellazione totale della cultura
anarchica. Qua e là in varie chiese cattoliche aveva visto
le lapidi con lunghi elenchi di nomi: preti e suore uccisi durante la
guerra civile. Era rimasto impressionato dalla modernità
della città, dalla pulizia delle strade, dai semafori
sincronizzati, ma colpito soprattutto dalla vitalità degli
spagnoli.
Mi disse di una serata in discoteca. In un salone di 40x60 mq.
ballavano insieme coppie di giovani e coppie di vecchi (tango,
charleston). L’edificio era del primo Novecento, un ex
casinò, la volta putrefatta
dall’umidità («ridotta a pittura di
Pollock»).
A Barcellona era stato per una mostra di libri. Mi riferì
del fervore con cui la Spagna, fornitrice di tutto il mercato
sudamericano, si dedicava alle traduzioni. Era anche impressionato dal
fatto che negli USA esistessero interi quartieri in cui si parlava
spagnolo ed era facile trovare nei negozi la scritta «English
spoken».
Tanto era ammirato per la dinamica produzione editoriale della Spagna e
la diffusione dello spagnolo nel mondo, tanto invece era preoccupato
per la sorte dell’italiano. Mi disse (io lo ignoravo e mi
pare che si riferisse ai primi del Novecento) che in Argentina si era
discusso seriamente se la lingua nazionale dovesse essere
l’italiano. Aggiunse poi che, mentre polacchi ed ebrei
avevano mantenuto delle comunità compatte, preservando le
loro radici linguistiche e culturali, lo Stato italiano non aveva
quasi difeso la lingua e la cultura dei nostri migranti,
perché tra loro prevalevano gli appartenenti alle classi
subordinate: «è stata più espulsione
che immigrazione», disse. E mi citò un verso di
Barbarani26:
«Maledetta Italia».
Mi riferì subito dopo che aveva partecipato a una serata
sulle carceri organizzata a Milano dalla Corsia dei Servi. Apprezzava
le posizioni di Maisto27
e di quanti si attenevano al principio
della «certezza laica del diritto». È
tipico del pensiero cattolico - commentò - convertire il reo
cercando di penetrare nel suo intimo; mentre erano ammirevoli i Romani
che, pur essendo stati dei «tagliagole», avevano
esteso la cittadinanza a tutti i popoli sottomessi. No, «il
giudice non deve trasformarsi in confessore», aggiunse. Mi
parlò pure delle reazioni ostili dei
«dissociati» (e delle
«dissociate» in particolare) al suo tentativo,
durante alcuni incontri che aveva avuto con loro nelle carceri, di
riaffermare la visione marxista della violenza nella storia.
Sottolineò il loro risentimento. L’avevano
rimproverato: «È come se tu ci dicessi che stiamo
seguendo una via sbagliata»28.
Mi parlò poi di come la Chiesa, disponendo di
un’antropologia più solida di quella del marxismo
volgare, si stava muovendo sulla questione dei detenuti politici in
maniera abile ed intelligente, occupando gli spazi abbandonati dal
pensiero laico. Gli chiesi se riteneva possibile ricostruire
un’etica laica. Mi rispose che spunti per farlo potevano
venire solo da una rilettura innovativa di Hobbes, di Machiavelli e
anche del «De monarchia» di Dante.
Si lamentò poi del ritardo con cui era entrato
nell’università e di come ne stava uscendo col
minimo di pensione. A differenza della relativa omogeneità
di reddito che esisteva tra gli insegnanti delle superiori, notava che
nelle università gli squilibri di reddito erano forti. Aveva
quasi dimenticato quanto guadagnasse un insegnante delle superiori. E
glielo aveva ricordato il filosofo Costanzo Preve durante un viaggio
che avevano fatto insieme. Mi parlò pure
dell’adattamento all’esistente e alla macchina
burocratica di quanti erano entrati nelle università attorno
al 1970-’71 esprimendo una forte carica antistituzionale,
smarritasi poi nell’impegno in un ambito specialistico ben
delimitato.
Era molto preoccupato per il «gonfiamento del
terziario» e l’ingigantirsi della
«macchina della menzogna». Quanto ci sarebbe stato
bisogno di anticorpi (di «commandos suicidi»)
specie in certi settori come la televisione e la pubblicità!
E insistette sull’importanza di avere descrizioni serie
dell’ambiente in cui si lavorava e di analisi anche
elementari di ogni rapporto di lavoro.
Poi affrontò il tema degli intellettuali. Mi citò
Ernst Bloch. Pur trovandolo confuso e dispersivo, apprezzava alcune sue
potenti intuizioni sulla cultura contadina preborghese. Mi
nominò vari scrittori dell’Ottocento a me poco
noti. Gli chiesi poi cosa pensasse dell’ultimo
Lukács, quello dell’Ontologia
sociale,
pubblicato
in Italia proprio in quell’anno e che stavo leggendo. Non
l’aveva letto, ma riteneva che fosse una lettura da fare, non
liquidabile. Quanto agli intellettuali di sinistra negli Usa - mi fece
l’esempio di Noam Chomsky - per lui erano degli isolati.
Avevano attrezzature invidiabili per studiare, ma la separatezza dalla
vita sociale era completa. E ricordò le botte dei camionisti
e degli operai agli studenti che manifestavano ai tempi della guerra in
Vietnam negli anni Sessanta. «Il Vietnam è sotto i
nostri piedi» mi disse. Bisognava stare attenti alla
situazione internazionale, ma era importante cogliere le contraddizioni
esistenti qui da noi. Altrimenti si finiva per andare in villeggiatura
in certi posti del Libano, anche se a pochi chilometri il macello
continuava.
Mi riferì anche sulla sua partecipazione a un convegno sul
romanzo a Palermo, presenti narratori sovietici e americani. Aveva
conosciuto il sindaco democristiano (credo fosse Orlando). Era
però rimasto scandalizzato dal costosissimo apparato
organizzativo. Giudicava di una vanità insopportabile queste
operazioni «tutte d’immagine»:
«alle immagini bisogna sostituire gli interessi»,
concluse.
Gli chiesi se si aspettasse ancora terremoti sociali. No, vedeva
crescere una «corporativizzazione», una
«rifeudalizzazione», un «Medioevo
già spinto oltremisura». Riteneva che vi
contribuisse anche la psicanalisi, ormai istituzionalizzata. E mi
citò il caso di Rotelli, che a Trieste era accerchiato da
una «controffensiva antibasagliana»
all’insegna del «niente di sociale deve rimanere in
vista». Si era rafforzato, disse, «il potere degli
psichici». Altrettanto indignato era per le sovvenzioni
incontrollate all’editoria dello Stato: «sono
miliardi che vanno a pubblicazioni come L’Araldo di
sant’Antonio».
Poi mi disse che aveva esaminato e apprezzato i miei disegni del
«Narratorio grafico» che gli avevo fatto avere in
fotocopia. Mi suggerì di affiancargli «brevi
frasi», che però non fossero dei titoli e di
impaginare i disegni, inserendo tra l’uno e l’altro
dei fogli che riproducessero pagine seriali di orari ferroviari,
elenchi del telefono, regolamenti (ad es. quello
dell’ATM). Avrebbe parlato anche con degli amici
per una possibile pubblicazione. Pensò dapprima ad
«alfabeta». Poi si corresse: siccome i miei disegni
gli sembravano «datati», riferibili agli anni
Settanta, riteneva che potessero circolare meglio tra i compagni
dell’area di DP della zona tra Grosseto e Piombino. E mi
nominò Velio Abati, «un tuo quasi
omonimo», un filosofo che si occupava di grafismi.
Per «Laboratorio Samizdat» mi disse che avrebbe
letto la rivista e avrebbe deciso se collaborarvi. Vedeva positivamente
queste iniziative, «se si moltiplicassero»,
aggiunge. E mi citò l’inserto Il piccione
viaggiatore in Linea
d’ombra
che si muoveva in una direzione
simile. Accompagnandomi alla porta, si congedò con una
battuta che mi chiese di far circolare: dopo Chernobyl gli
intellettuali italiani hanno discusso parecchio per
l’eventuale fondazione di una «Lega
dei…Timori».
1986:
Fortini e
la rivista dei
“periferici”
Soltanto nell’aprile 1986 ricominciai a fare rivista,
raccogliendo attorno a me un nuovo gruppo di giovani amici,
sempre di Cologno Monzese. Mandai i primi numeri di
«Laboratorio Samizdat»29
a Fortini. Per
telefono ebbi i suoi complimenti per un pezzo su Chernobyl30,
la raccomandazione a mandare delle copie della rivista a Edoarda Masi e
a Giulio Latini della rivista «La contraddizione»,
che usciva a Roma, e la promessa del suo intervento al convegno di
Psichiatria
democratica a Trieste31,
se lo autorizzavano; o
qualcos’altro.
Durante un’altra telefonata del 20 ottobre 1986 lo incalzai:
che rivista, a suo parere, si poteva tentare in quella fase?
Ci vorrebbe – mi rispose all’incirca - una rivista
sul modello di «Ragionamenti», che miri ad un
ripensamento di esperienze personali e a una severa
«ripulitura» di quelle pubbliche, costruita con
«contributi ben pensati» e con una scrittura
accurata, particolarmente calibrata sui destinatari (insegnanti di
scuola soprattutto). Una rivista «come tante
altre», che non ribadisse la sua separatezza e non avesse
mire egemoniche: uno dei tanti luoghi del ripensamento necessario. A
suo parere, si era entrati in una fase di «apertura di
movimento», perciò una rivista
«puramente culturale» sarebbe stata indietro
rispetto alla situazione.
E se dovessi farla tu? – gli chiesi ancora – che
temi tratteresti? Mi rispose che avrebbe affrontato quelli
«fondamentali» (di antropologia: ad es. il tema
della violenza nella storia, una «teoria dell’agire
storico-etico»); e che avrebbe lavorato a una
reinterpretazione degli ultimi 20-30 di storia. Si disse meno
interessato ai fatti di cronaca.
Con queste premesse che mi parevano favorevoli, alcuni giorni dopo, il
24 ottobre, organizzammo un incontro della nostra redazione con lui e
Edoarda Masi nella sua casa di Via Legnano.
Per l’occasione avevo preparato e lessi degli appunti-tesi,
basati sull’idea della perifericità
degli
intellettuali. Oggi li riassumo così: 1) La rivista nasce in
periferia, fatta da «intellettuali periferici»,
collocati in ruoli esecutivi e con compiti di trasmissione
“semplificata” di informazioni e saperi; e ad essi
rivolge i suoi «materiali» (come da sottotitolo);
2) ci consideriamo periferici e non emarginati o alternativi rispetto
alle istituzioni culturali, che sono o ci appaiono
“centrali”; riconoscendo cioè un
problema: la nostra distanza sia dalle “masse”
(analfabeti, lavoratori espropriati dei più elementari
strumenti di conoscenza, immigrati di colore, disoccupati, carcerati,
malati di mente) sia dalle istituzioni che orientano e organizzano la
cultura dal “centro”; e non pretendiamo neppure di
essere già “alternativi” in partenza,
consapevoli che chi è dentro un sistema culturale
capitalistico ne è condizionato pesantemente; 3) ci
proponiamo di studiare e trasformare la nostra condizione attraverso la
critica di tale sistema culturale; 4) e, per sviluppare tale critica,
chiediamo la collaborazione di altri intellettuali
(“centrali” o meno “periferici”
di noi): per orientarci nella produzione dei mass media, confrontare le
esperienze di generazioni che hanno operato in periodi storici diversi
(ad es. il ’56 per te e la Masi; il
’68-’69 per noi), confrontare i nostri
saperi di partenza con i saperi più strutturati e
scientifici, ai quali abbiamo insufficiente accesso. A parte ponevo la
questione se avesse senso o meno fare
rivista
in un panorama culturale
sempre più dominato da altre forme di comunicazione
(audiovisive).
Fortini si dichiarò subito e inaspettatamente contrario a
questa impostazione, trovandola «sociologica».
Concentrarci sulla condizione periferica rischiava, secondo lui, di
condannarci all’impotenza o di ingigantire una nevrotica
ansia di aggiornamento. E ci propose la sua: «contare sulle
proprie forze», fondarsi sui saperi storici sedimentati nella
società e distinti da quello degli specialisti.
Indipendentemente dall’essere in campagna, in
città, in una periferia o in una metropoli, tali saperi,
fondati su esperienze, persuasioni profonde e scelte morali (e non su
nozioni imparate sui libri), sarebbero stati un’ottima base
di partenza per la rivista, proprio perché già
incamerati da molti, Non c’era, in conclusione, bisogno di
distinguere tra centro e periferia; né di saperi
“esterni” da raggiungere.
Ad Edoarda Masi, invece, non parve sbagliato sostenere che
noi e la maggior parte della gente fossimo in una condizione
periferica. Il sapere umanistico, quello che Fortini riteneva
sufficiente per conoscere ed agire nella realtà, era in
effetti “periferico” rispetto a quello scientifico.
Entrambi poi insistettero sulla necessità di non trascurare
Cologno (quello che “avevamo sotto i piedi”).
Fortini, in particolare, c’invitò a
«porre in rapporto Cologno col mondo»,
poiché non esisteva più un solo
problema che potesse essere affrontato senza mettersi in una
prospettiva mondiale; e ritornò ancora sul problema
dell’autosufficienza dei propri saperi32.
Bisogna scaldarsi – disse all’incirca - con quello
che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto,
perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È
giusto che sia così, Non servono le ultime
novità. Un buon manuale liceale spesso è
sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti
sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto
– s’incontrano e vanno a passeggio conversando.
La discussione si concentrò poi sul tema di come fare
rivista; e da Fortini vennero
utilissimi suggerimenti: una rivista non
doveva essere la vetrina dei bisogni di isolati redattori, ma
raccogliere i bisogni dell’area sociale nella quale i
redattori operavano; far circolare esperienze di molti e non di pochi;
non competere con un tipo di rivista (solo filosofica, solo politica)
già da tempo presente nel mondo culturale italiano.
Prima di pubblicare una rivista – aggiunse - dobbiamo
chiederci a chi la rivolgiamo, quali siano oggi le condizioni di
lettura, per quali scopi precisi la facciamo. Solo dopo si passa a
stabilire cosa metterci dentro. Inoltre una pubblicazione
doveva darsi strumenti di verifica e di controllo della propria
ricezione. I suoi promotori dovevano chiedersi periodicamente come
rispondeva la gente ai suoi articoli. E perciò
approntare un sistema di controllo. Anche se i lettori fossero stati
solo trenta, bisognava accertarsi che lo fossero realmente, che
leggessero la rivista e non l’annusassero soltanto. A troppe
riviste – disse - succede quello che succede ormai ai
quotidiani: si cerca la via più breve, quella che porta dal
titolo dell’articolo alla firma. E, dunque, non interessa
nulla di cosa c’è
dentro.
Misurare, dunque, il tipo di passioni che una rivista suscitava gli
pareva indispensabile: Chi deve pagare una tassa –
esemplificò - si sforza di capire cosa dice quel linguaggio
burocratico. Allo stesso modo i lettori di una rivista devono essere
gente sufficientemente motivata, che leggano «non solo per
rinfocolarsi».
E poi ci somministrò subito dopo una gragnuola di
interrogativi scomodi, misti a dati di fatto amari ma incontestabili:
La vostra pubblicazione ha interesse a ripercorrere la strada del
«manifesto»? I possibili utilizzatori non
potrebbero trovare i dati di «Laboratorio Samizdat»
su altre fonti? Ci sono persone che leggono soltanto
«L’Araldo di S. Antonio»; e
«Rinascita» non è mai arrivata ai 9
milioni di copie raggiunti da «Famiglia cristiana».
Insomma, le persone a cui ci rivolgiamo che tipo
d’informazione hanno? Solo dalla Rai TV? Quale? Il contenuto
della rivista rielabora una visione generale delle cose? O
dà indicazioni più specifiche? Vi dò
un articolo mai pubblicato, «Interpretazione
dell’intellighentia ungherese», ma a chi interessa?
A quattro persone. Bisogna pensare bene qual è la domanda
silenziosa dei possibili lettori.
Edoarda Masi, da parte sua, ci ricordò due modelli tipici di
riviste: - quello “all’italiana”,
incentrato di solito sulla trattazione di problemi teorici; - quello
anglosassone, attento alle esperienze e all’analisi di
situazioni e lotte specifiche.
Bastava leggere – disse - un articolo della «Montly
Review» per cogliere la differenza. E noi
dovevamo definire in quale direzione andare: o l’una o
l’altra; o, magari, a seconda dei casi, in tutte e
due.
Tornai a casa un po’ frastornato e deluso. Le speranze in una
collaborazione attiva da parte di Fortini e di Edoarda Masi o di
trovare in loro addirittura una «guida», come
qualcuno di noi ingenuamente si aspettava, non avevano avuto
accoglienza. La collaborazione di entrambi si limitò poi a
due contributi per il decennale della morte di Mao, che uscirono sul
numero del gennaio 1987: la Masi si fece intervistare sul tema; e
Fortini autocommentò la sua poesia Editto contro i
cantastorie. Subito
dopo ci fu sconcerto nella redazione e di
fronte alla critica fortiniana della perifericità, con zelo
eccessivo, eliminammo dal numero in preparazione il sottotitolo:
«materiali di lavoro per intellettuali periferici»,
sostituendolo con un più generico e tradizionale
«rivista politico-culturale».
1987- 1991:
Fortini e le
poesie di uno che andava «in
più direzioni»
Dopo quell’incontro lo sentii ancora a telefono il 9 ottobre
1987. Avevo letto con una certa partecipazione Lenta ginestra 34
di Antonio Negri appena pubblicato, ne avevo scritto su
«Laboratorio Samizdat» e inviato a Fortini il testo
per un parere. Mi disse che il mio articolo sollevava
«problemi enormi» e sovrapponeva però
due questioni: quella dell’interpretazione
scientifico-filologica delle opere di Leopardi e quella dei loro
effetti politico-culturali nell’oggi. La seconda questione
gli interessava meno. Aveva intenzione di rispondermi in dettaglio, ma
era «in partenza per le Americhe») e per il momento
mi riassunse le sue riserve.
Sulla questione del Leopardi filosofo stava più con
Timpanaro che con Luporini; e non approvava la lettura di Negri, che
tirava i testi di Leopardi verso un «indeterminato discorso
filosofico» per lui antimarxista. Mi ribadì poi
l’importanza della «distinzione dei
generi»: quando si scrive un saggio filosofico –
disse - ci dev’essere un uso del linguaggio diverso da quando
si scrive una poesia.
Più in generale, le sue riserve riguardavano, come
già sapevo, tutte le interpretazioni filosofiche di
Leopardi, che non tenevano conto a sufficienza
della sua poesia: leggono - mi disse -
L’infinito
o Il
canto di un pastore come se
fossero
scritti filosofici e basta. Invece, in Leopardi c’era
«una mimesi di natura e storia» e il testo poetico
aveva una ricchezza, una polisemia, una complessità che
sfuggono continuamente e non sono riducibili al concetto.
Perciò mi consigliò una sola cosa: leggere i
testi di Leopardi. Nello Zibaldone
si trovava un pensiero filosofico
che poteva interessare tutti. Quando quegli stessi pensieri - sulla
morte o sulla natura - venivano però trasposti in poesia,
c’era qualcosa in più, di più sfuggente
e contraddittorio.
Era perciò errato rimproverare Leopardi - mi fece
l’esempio di una poesia di Gianfranco Ciabatti - di non
essere coerente fino in fondo o di non misurarsi con tutta la miseria
del corpo o di non essere un «materialista totale».
Perché in Leopardi poeta c’era anche la
contraddizione, c’era anche «la gioia». E
questa contraddizione non sminuiva affatto la sua grandezza.
Lui (Fortini) l’aveva scritto da tempo.
Vincendo le mie titubanze, il 28 dicembre 1987, sempre a telefono, gli
chiesi di scrivermi una presentazione della nuova raccolta di poesie
che stavo preparando. Acconsentì subito e gli spedii la
bozza di «Salernitudine/Immigratorio/ Samizdat»35.
L’8 gennaio 1988, ancora per telefono, mi disse che non era
riuscito a leggere tutto, ma che gli pareva che
andasse «molto bene» e mi
consigliò di sfoltire, dicendosi d’accordo nel
farmi la presentazione, se trovavo l’editore.
Passò quasi un anno e la sua lettera dell’8
gennaio 1989 mi diede un alt cocente. Solo dopo un mese di
frustrazione, il 29 gennaio, abbozzai una replica, che però
non gli spedii. Ero imbarazzato e incerto sulle ragioni di fondo di
quel brusco passaggio dai precedenti e sia pur generici apprezzamenti
alle «parole eccessivamente severe» che mi aveva
poi scritto. In particolare mi colpiva la sua «non
persuasione» per una sezione: quella di «Samizdat
sesta finestra e poesie successive». Qui entravano in campo
la figura paterna e la Legge (anche poetica) che Fortini mi
rappresentava; e pensai che le sue riserve avessero a che fare con tale
contenuto. Gliene chiesi conto, ancora una volta a
telefono. Fortini escluse subito questa ipotesi e si
lanciò invece in un lungo ragionamento
sull’«a capo» e sul rapporto
tra prosa e poesia. Lo riassumo così:
L’a capo, il verso libero, produce un effetto di
concitazione. Il pericolo è l’«enfasi
tragicista». L’a capo comporta un «cambio
di velocità», controllabile se la poesia
è breve; e si ha allora «una forma che
chiude» (mi portò l’esempio di
Ungaretti). Non controllabile, invece, se la poesia
è lunga, finendo per produrre il cosiddetto
«serpente» (mi fece l’esempio di Lucini e
dei futuristi). L’a capo era un «aiuto ingannevole
come l’alcool». Quando si dovevano dire certe cose,
dava una carica maggiore, ma pericolosa e da controllare. E mi fece
l’esempio dell’oratore che, preso dalla foga,
smarrisce il pensiero e si ritrova a sentire la propria voce risuonare
a vuoto.
La prosasticità – disse - deve essere riscattata
con la regolarità del verso. E, per farmi capire, mi lesse
prima un brano ritmandolo con pause irregolari e poi ritmandolo su tre
battute fisse.
Nelle mie poesie - mi disse - per la scelta del contenuto,
nessuno poteva certo accusarmi di pentitismo, ma di ripiegamento
sì; e questo capitava ancora di più ad altri.
C’era bisogno di un maggiore distanziamento dal passato. Non
ci si doveva lasciar prendere dal «pathos verso il
passato», tentazione non solo della filosofia, come diceva
Hegel, ma anche della poesia. A lui appariva pericoloso che prevalesse
la nostalgia e che il passato apparisse “migliore”,
più “pieno di speranze”. E mi
portò l’esempio del suo Paesaggio
con
serpente. Quel pathos
l’aveva sentito affiorare nei
componimenti dedicati a Panzieri o a Rieser; e aveva cercato di
contenerlo limitando le composizioni a pochi accenni. Per il contenuto,
insomma, dovevo fare attenzione a come guardavo al passato; ed era un
problema «più ideologico che
psicologico».
Due gli sembravano i problemi non risolti nelle mie poesie: -
l’abbondanza della scrittura; - la forma, la «messa
in pubblico». In esse la «parte
ragionativa» andava separata da quella in cui i concetti si
univano al linguaggio e alle immagini. La parte ragionativa
«bisogna denudarla» - mi disse - evitando di
immergerla in quel di più che l’a capo di solito
dà in poesia. Bisogna che tu accetti l’apparente
«banalità della prosa», utilissima
invece a chiarire la debolezza del ragionamento, che a volte
l’a capo poetico occulta. Bisogna «liberare la
parte lirica dal materiale grezzo» e «fissare in
una prosa non lirica e non emotiva i ragionamenti».
Che io valutassi, perciò, la «cogenza della forma
lirica», se essa fosse necessaria o meno («molti
dei tuoi testi possono essere prosa», aggiunse).
Un po’ rappacificato, partecipai nel 1991 (ed è
stata la prima volta in vita mia) ad un Premio, quello intitolato a
Laura Nobile, la cui giuria era presieduta proprio da Fortini. Lo feci
anche per una sottile sfida nei suoi confronti o per strappare un
parere anche dagli altri membri della giuria36.
Non ho mai
saputo in quella sede come si sia espresso sulle mie poesie. Fu lui
però, il 12 novembre 1991, ad annunciarmi per telefono che
ero tra i finalisti e a congratularsi.
1989:
Fortini, la cultura di massa e l’Associazione culturale
«Ipsilon»37
Un’altra occasione per “tirare” Fortini
ancora a Cologno Monzese si presentò con
l’esaurimento dell’esperienza di
«Laboratorio Samizdat». Continuammo a pubblicare la
rivista fino al 1990, ma senza riuscire ad ampliare il numero dei
collaboratori o ad estendere al di fuori di Cologno Monzese la sua
distribuzione. Il nucleo redazionale si sfilacciò e qualcuno
decise di tornare alla militanza in Rifondazione Comunista. Con i
restanti, a cui si aggiunsero alcuni militanti del PCI delusi dalla
svolta di Occhetto, fondammo l’Associazione culturale
«Ipsilon» (il nome venne scelto aprendo a
caso il dizionario).
Quando glielo chiesi, Fortini accettò volentieri di tenere a
battesimo la nuova associazione. E il 30 maggio 1989 tenne una
relazione su un tema tipicamente suo, Per
un’ecologia
della
cultura di massa38
e partecipò poi, assieme a Bruna
Miorelli di Radio popolare, al momento conclusivo del gruppo
di lavoro di Ipsilon sull’ecologia della lettura
(non ricordo più se nello stesso anno o in quello
successivo).
Nell’introduzione che feci il 30 maggio 1989 indicai ancora i
due poli fissi del mio ragionamento su centro-periferia e indicai le
radici di «Ipsilon» nelle esperienze sociali
dell’immigrazione e dell’acculturazione di massa,
che erano state fondamentali per la trasformazione negli anni
’50-’60 di Cologno Monzese da paese a
“quasi città”.
L’attenzione verso Fortini e i suoi scritti fra i
partecipanti all’Associazione, provenienti per lo
più dalle esperienze della «nuova
sinistra» anche se entrati nel PCI, era tanto forte da far
parlare di una «Ipsilon»
“fortiniana”. Fortini in quegli anni
rappresentò davvero anche per noi ad un livello altissimo il
travaglio critico di quella parte della Sinistra che ancora si voleva
comunista e la volontà di minoranze fuori d’ogni
partito di proseguire nella lettura delle trasformazioni in corso nel
solco della lezione marxiana. Ma ancora una volta la speranza di una
più stretta collaborazione con noi saltò. E al
mio invito esplicito (Cfr. lettera del 12 giugno 1989) rispose
negativamente per telefono appellandosi alla propria stanchezza.
La sua presa sui “periferici “ di Cologno
durò per un certo tempo anche dopo la sua morte.
In collaborazione con la Biblioteca civica,
«Ipsilon» organizzò nel 1995 prima un
ciclo di «Esplorazioni e studi sulle opere di
Franco Fortini»39;
e poi, nel dicembre
1996, pubblicò, sempre in collaborazione con il Comune di
Cologno Monzese, il libretto «“Se tu vorrai
sapere...” Testimonianze per Franco Fortini»40.
Si pensò pure di promuovere delle iniziative annuali di
studio e di diffusione delle sue opere (ad es. facendo girare
nelle scuole primarie e secondarie della città una scelta di
sue poesie), ma l’impegno non fu poi mantenuto. E lo stesso
tentativo di stabilire una collaborazione tra
«Ipsilon» e il «Centro Studi F.
Fortini» dell’Università di Siena, nato
nel frattempo, non ebbe seguito.
Dopo la scomparsa di Fortini, il gruppo di
«Ipsilon», come già quello di
«Laboratorio Samizdat», tornò a
dibattersi nervosamente tra le passioni inquiete che surrogano tuttora
l’assenza della politica e prendono ora il nome della
Rifondazione ora quello dell’Unità delle Sinistre
ora quello dell’Esodo (dalla Sinistra o dalle Sinistre) o
della società civile (contrapposta alla forma Partito) o si
disperdono nei rivoli delle esperienze No profit
o del pacifismo di
matrice cattolica.
La crisi sempre latente dell’Associazione per
l’assenza di quel filo che
più /non brilla
venne
paradossalmente alla luce quando si stava per
“festeggiare” il decennale della sua fondazione,
portando ad un suo tacito e imbarazzato scioglimento, a nuove diaspore,
a nuovi tentativi di riorganizzazione41.
1991- 1994:
Ultimi saluti
L’ultima mia visita a Fortini avvenne il 9 dicembre
1991. Quanto diverso il suo umore rispetto al 1986! Allora era
infervorato dall’ipotesi di una nuova fase di
«apertura di movimento». Ora, dopo la caduta del
muro di Berlino del 1989 e l’implosione dell’Urss
pochi mesi prima (agosto 1991), prendeva atto di un mutamento
inaspettato («è caduto proprio il fondale della
storia»). Il crollo era immenso e riguardava per lui anche la
poesia. Andava bene, con Brecht, la poesia anche nei tempi bui, ma a
patto che fosse agganciata a un movimento sociale reale.
C’era più veramente?
Sui giovani mobilitatisi contro la guerra del Golfo aveva molti dubbi:
«stentano a staccarsi dall’istituzione, a fare da
soli con gli strumenti di bordo, come tu fai a Cologno» mi
disse. Mi mise al corrente che Sergio
Bologna fra poco avrebbe fatto una rivista42
e che, con altri,
stava affittando un locale. Lui, pur non avendo più energie,
avrebbe seguito il tentativo. C’era anche Ranchetti. E
aggiunse «così siamo due i preti».
Scherzando con una certa amarezza, ai giovani aveva detto pure:
«Io vi posso fare l’ora di
religione!».
Mi confidò anche che stavano preparando una nuova
bibliografia dei suoi scritti («Vedrai che bel
sepolcro!»). E alla mia solita domanda: che fare adesso che
la situazione non era più in movimento, rispose:
«Quello che già stai facendo…
Rinunciare alla poesia? No…Farla nel vivo delle situazioni
reali, senza rifugiarsi nelle istituzioni. Visto che non ci sei
arrivato, non hai neppure il problema di mollarle!».
Nel luglio 1993 l’avevo ancora chiamato da scuola per
chiedergli di farsi intervistare da me sugli stessi temi di Leggere/scrivere
di Jachia e m’aveva dato la sua
disponibilità per settembre. Poi il suo stato di salute
precipitò.
Ricordo l’ultima accorata sua telefonata. Aveva letto un mio
testo poetico su Utopia concreta e
mi aveva chiamato per questo. Ne
rimasi quasi meravigliato. Ma com’era diventata fievole
adesso la sua voce! Al funerale, che m’immaginai
affollato da personaggi, preferii non andarci. Partecipai invece alla
serata del 14 dicembre 1996 in sua memoria al Teatro Franco Parenti di
Milano. Ero in platea e dopo gli interventi di Perlini ed altri, trovai
il coraggio di alzarmi e leggere dal posto in cui ero, con voce un
po’ strozzata, una poesia che avevo scritto in quei giorni43.
Altre ne ho scritto successivamente che lo riguardano, continuando a
lavorare ai miei appunti e a seguire quasi tutto quello che altri vanno
scrivendo su di lui.
Sempre
dalla periferia.
Riflessioni nel tempo
Rileggo oggi, da vecchio, i documenti che qui pubblico. Che contrasto
tra i miei desideri di amicizia, di confronto intellettuale sul mondo
(la “mia” periferia, la poesia, la
politica, la memoria del Sud, la storia), di collaborazione a un
possibile progetto comune, che alimentarono dalla mia prima
lettera del 1978 all’ultima del 12 giugno 1989, una sorta di
strategia di avvicinamento a
Fortini e la realtà storica
sempre più ostile che ci calava addosso!
Parabola discendente della vita economica, culturale e politica
italiana, sconfitta irreparabile delle speranze sorte nel
’68-’69, crollo dello scenario del Novecento,
vecchiaia e morte sue, mio rintanamento definitivo
in quella periferia di Cologno, la cui pesantezza tentai di
contrastare, come avevo fatto ai tempi della militanza in
«Avanguardia Operaia», ristabilendo un collegamento
con Fortini e Milano.
La “realtà” oggi è per me
ancora e soprattutto questa periferia, più degradata,
sofferente e silenziosa. L’esitazione con cui sono tornato su
questi scritti è dovuta anche alla
consapevolezza dell’innegabile fallimento di quella mia
strategia
e della pesantezza di questa realtà da
fronteggiare. Non voglio sfuggire però al rendiconto
e ripercorro quegli anni.
Nella mia prima breve lettera a Fortini del 1978 ci sono chiare ed
elementari le esigenze contingenti di allora
e quelle legate più in profondità alla
mia storia precedente.
Nel 1978, come ho detto, ero alle prese con il mio stacco dalle guide
“fraterne” (i dirigenti della ex-
«Avanguardia Operaia», separatisi per confluire chi
nel Pdup chi in DP) e vidi in Fortini una possibile guida
“paterna”44:
uno della generazione dei
padri “buoni” di questo Paese; e pure un padre
istruito, comunista ma senza borie di partito, da aggiungere al padre
mio reale: poco istruito, contadino meridionale, carabiniere.
In Questioni
di frontiera, e ancora
più nel suo Dieci
inverni, ritrovai una critica
al partito leninista-operaista quasi
“gemella” di quella che avevo intravisto in
Militanti
politici di base45,
regalatomi da un
“fratello maggiore”, Danilo Montaldi, che conobbi
nel 1974 poco prima che morisse. E nella lettura dei libri di Fortini
sentii quel respiro della grande cultura e della grande storia, che
avevo assaggiato a sprazzi solo in alcune letture
giovanili e disordinatamente nei “controcorsi” alla
Statale occupata del ’68 o nei seminari per
“quadri” di «Avanguardia
Operaia».
La lettera del 1978 non fu, dunque, quella di un aspirante scrittore o
poeta, che a un poeta e scrittore affermato chiedeva pareri e
incoraggiamenti per farsi strada. Non stavo rientrando nel
“privato” o rifugiandomi nella “tana
dell’Essere” della poesia, dopo gli
“estremismi” della politica. A Fortini mi rivolgevo
da “compagno“ a “compagno”
(termini obsoleti, va bene): la spinta politica (azzoppata) era viva
quanto quella alla poesia, per me puntello ma anche correttivo e
possibile oltrepassamento della politica. Cercai, infatti, un
giudizio su quella mia poesia e allo stesso tempo «qualche
buona indicazione» per fare
rivista,
cioè tentare
ancora assieme ad altri, evitando ogni sdegnoso isolamento, di
co-operare, di proseguire una militanza non più partitica. E
la domanda di sapore leninista, «che fare a cologno
monzese?»46,
conteneva una ripulsa della tentazione
crepuscolare e apolitica che la periferia poteva rappresentare per me.
La periferia! La mia ossessione…
Ancor più dopo la sconfitta politica e la rottura del filo
rosso che avevo in precedenza
costruito tra Milano e Cologno Monzese
nel periodo della militanza in «Avanguardia
Operaia», la periferia mi appariva, infatti,
orizzonte esistenziale obbligato e ineludibile tema da far entrare nei
discorsi che intessevo (non da lasciar fuori come fanghiglia
strofinandosi le scarpe sullo zerbino delle istituzioni culturali).
Venivano meno d’un tratto tutti quei rapporti diretti e vivi,
che avevo avuto da militante per un decennio soprattutto nei vari
paesotti dell’hinterland (Cologno, Sesto, Cinisello, Cormano,
ecc.) con persone di strati sociali diversi (operai soprattutto); e mi
ritrovavo quasi esclusivamente ad agire in rapporti con miei simili:
insegnanti, intellettualità di massa (o
intellettualità diffusa), i piccoli o piccolissimi
«cetomedisti» (Majorino). Con essi fino ad
allora e soprattutto a scuola avevo polemizzato appellandomi
agli “altri” (gli operai appunto; o, più
retoricamente come dicevamo, alla “classe
operaia”). Ora non più.
Da qui nei confronti di Fortini quell’alternare di richieste
personali e richieste di gruppo: una ricerca insistente di
aiuto e di alleanza, che espressi fin nella mia ultima lettera che gli
inviai47.
In quel nuovo lavoro di spola tra Cologno e Milano, andavo ora
da lui come per attingere buona acqua da un pozzo più ricco
e riportarla in periferia, ma anche con una segreta speranza di tirarlo
in periferia, con
l’ambizione di vedere cosa si potesse fare
assieme, unendo le nostre intelligenze, per smuoverla.
Queste mie attese incontrarono una serie di alt e vennero interrotte
dalla sua morte.
Un primo alt lo vedo oggi nel fallimento dell’iniziativa a
favore di Del Giudice del 23 ottobre 1983 a Cologno. Fu una dura
lezione per me non solo avere la conferma di quanto fosse ancora forte
l’attrito tra la parola, “fraterna” ma
ora stravolta in «grido» di Del Giudice,
e la voce, sempre “paterna” ma ora quasi disperata,
di Fortini. O avere la prova che le considerazioni
“generali” di Fortini non s’incontravano
affatto con quelle pragmatiche di Del Giudice e degli altri:
l’avvocato Pelazza, uno dei pochi coraggiosi difensori nei
processi milanesi ai «lottarmatisti»; Lucia, moglie
di Oreste Scalzone, allora rifugiato a Parigi; il
rappresentante di un «Comitato contro la
repressione».
Quella sera mi parve di assistere a una sorta di ripetizione abbreviata
delle accuse che Fortini aveva mosso alle ambivalenze della generazione
del ’68 ne Il dissenso e
l’autorità48.
E, da parte di Del Giudice,
ad una denuncia troppo baldanzosa dello «scandalo del carcere
speciale» e che faceva tutt’uno col rifiuto di ogni
ripensamento sul suo operato politico e sull’ideologia del
«lottarmatismo».
Del Giudice mi riportava echi di un ’6849
sconfitto e
incarcerato; e non volevo sottrarmi o tapparmi le orecchie.
Sì, avevo io pure negli «anni dei
movimenti» condiviso assieme a tanti un principio di violenza
rivoluzionaria, ma non avevo seguito quelli che, settari e del tutto
incontrollabili, l’avevano poi disastrosamente praticato a
movimenti languenti. Ma vedevo pure che quel ’68 era
deperito, non aveva più la forza che s’era
conquistato nella società reale e non poteva sopravvivere
gridando.
Quella sera toccai con mano che sia la visione tragica fortiniana sia i
frammenti di verità che mi arrivavano dal carcere nella
prosa spesso ermetica di Del Giudice, nel suo grido,
raggiungevano soltanto pochissimi: gli stretti parenti e amici dei
detenuti. E non incontravano nessun terreno dove attecchire neppure in
quella “mia”periferia, che illusoriamente
forse ancora vivevo come luogo di resistenza contrapposta ai
“centri” del potere, capace chissà di un
ascolto maggiore delle voci provenienti dal carcere.
Col tempo ho dovuto ammettere più decisamente di quanto
ammettessi allora che il mio rapporto “fraterno”
con Del Giudice in carcere era stato un confronto-duello irrisolto. Con
lui la cooperazione era e si dimostrerà, anche dopo la sua
scarcerazione, una mia chimera. Il rapporto si era conservato per un
mio astratto doverismo verso un compagno carcerato, che mi aveva fatto
tollerare e giustificare. la sua impazienza aggressiva e sarcastica
verso le “anime belle” in cui mi collocava. E non
fu un caso che, tolto il nostro rapporto da quel contesto, uscito Del
Giudice cioè dal carcere, dopo alcuni tentativi falliti,
ogni ipotesi di collaborazione tra noi due venne meno e
ciascuno andò per la sua strada.
Col tempo ho dovuto riconoscere, però, la mia solitudine di
quella sera anche rispetto a Fortini. Il mio tentativo di far dialogare
tradizione comunista e tradizione anarchica era ingenuo; e finii per
passare ai suoi occhi persino come un fautore delle piccole
comunità. E mi sono accorto poi che era del tutto
irrilevante il problema che in quell’occasione mi posi: se
aveva più ragione Fortini o Del Giudice. La
verità era che, essendo tutti degli sconfitti, io potevo
dare ragione o a uno sconfitto più anziano o a uno mio
coetaneo. Niente di più. Sì, le tesi di Del
Giudice mi parvero più elusive, più deboli,
più esterne alla mia storia, ma sulla visione tragica di
Fortini si poteva costruire ancora cooperazione? La storia non
l’acchiappavamo per la coda…
E perciò quella sera mi ritrovai sì dilaniato, ma
più cocente fu la presa d’atto della mia
solitudine e del fatto che la periferia era restata altrettanto opaca e
indifferente a Fortini a Del Giudice a me.
Che Autonomia e Brigate Rosse venissero liquidate, come la Chiesa aveva
liquidato a suo tempo gli eretici, esclusivamente attraverso strumenti
repressivi e senza più interrogarsi sulle ragioni per cui
erano sorte tali formazioni, era un’analogia storica che
veniva in mente e allarmava solo me e pochi intellettuali ormai al
margine. La maggioranza “democratica” approvava.
Credo che tutti i partecipanti ebbero la sensazione che il discorso
moriva lì. E infatti gli «anni di
piombo» passarono, ma dopo essere stati sprofondati
a colpi di sentenze di tribunali e di una smisurata e cinica
chiacchiera.
Anche nella cronaca delle due visite a Fortini del 1985 e del 1986
trovo oggi, oltre ad alcuni aspetti che mi suscitano simpatia, i segni
della difficoltà di entrare in un vero rapporto di scambio
tra noi due. Fortini mi apparve come un
“mattatore”, di un’eloquenza
inarrestabile, propenso più ad esporre e ad esporsi che ad
ascoltarmi e in quelle due visite mi ritrovai quasi bloccato da un
flusso impetuoso di notizie per me interessanti o insolite. E, infatti,
tornato a casa, da bravo cronista, presi appunti di quello che mi
tornava a mente dell’incontro, per cui ancora oggi posso
riferirne con accuratezza. Ma pensavo anche all’importanza
che avrebbero potuto avere anche delle cose dette a
ruota libera: per conoscerlo di più, per conoscerci di
più.
Avrei preferito trattare con lui i temi di cui mi occupavo. E questo
accadde la prima volta: il tema della repressione politica in quel
momento era anche mio. E nella seconda, in maniera inattesa e spontanea
(e allora non sapevo che anche lui disegnasse e dipingesse), a
proposito dei disegni del mio Narratorio
grafico.
Ma
l’impressione più netta che ricavai da quelle due
visite fu che Fortini non ce la facesse, se non per attimi, anche in
quegli incontri faccia a faccia, a chinarsi sulle cose che occupavano
la mia mente e la mia esistenza quotidiana di insegnante50.
Avrei dovuto reagire? Forse, mi sono detto poi, sarebbe stato meglio
scrivergli. Ma allora accettavo il suo stile.
Della delusione per il suo giudizio sulla mia raccolta di poesie e del
successivo riassorbimento della stroncatura ho già
detto51. Ma
l’alt politicamente più
cocente venne in quell’incontro del 1986 con la redazione di
«Laboratorio Samizdat» dalla bocciatura di quelle
mie tesi sull’importanza del contrasto centro-periferia e
sugli “intellettuali periferici” in latente
contrapposizione agli intellettuali “centrali” o
vissuti come tali52.
Allora cercavo qualche pezza
d’appoggio alla mia “fissazione”. Una mi
pareva di averla trovata persino in un intellettuale
«universale» come Lukàcs53
e
perciò non mi aspettavo da Fortini quella chiusura.
Oggi, a distanza di tanto tempo, l’attenzione alla periferia,
sociologica quanto si vuole, pare riemergere54
e le intuizioni
di allora mi paiono ancora non campate in aria. Mi pareva (e mi pare)
che la crisi operasse sia nel centro (nelle istituzioni centrali; e ce
n’erano e ce ne sono) che in periferia. E che, in generale,
l’esperienza andava da tempo e sia andata sempre
più deperendo (non l’aveva notato Benjamin? Non
l’hanno confermato le teorie della società dello
spettacolo?) e che non ci si
potesse (si possa) appellare
all’esperienza, come se essa rimanesse inalterata o non
intaccata nella sua struttura “umanistica”. Non mi
pareva (né mi pare) facile organizzare quel poco di
esperienza “vera” che ancora riusciamo a fare,
senza avere una “quasi teoria” per inquadrarla
e che questa non viene solo dal
“vissuto”.
Posso ammettere che pensare alla periferia come “base
rossa” per intellettuali resistenti alla mercificazione fosse
ingenuo. Ma l’ho mai pensato? Ho avuto sempre nella mente e
davanti agli occhi la periferia-realtà, quel ventre debole,
in cui ancora oggi le suppurazioni della crisi sociale e politica si
presentano più oscure e subdole, e dal quale la sinistra si
è sempre distratta (come aveva sperimentato anche Montaldi
ai suoi tempi con la sua ricerca sugli immigrati), preferendo un vago
progressismo. E per «unire Cologno al
mondo» a me parevano (paiono) indispensabili collegamenti
reali tra chi stava a Cologno e chi stava fuori di Cologno, a Milano o
altrove nel mondo. Tra l’altro, proprio
l’esperienza fatta nei decenni precedenti mi diceva che le
stesse iniziative politiche costruite a Cologno fra 1968 e 1976 nei
quartieri, nelle scuole e nelle piccole fabbriche sarebbero state
impensabili senza il filo
che avevo tessuto allora tra Milano e Cologno
con «Avanguardia Operaia» di Milano.
Quel mancato appoggio di Fortini me lo sono perciò spiegato
con una sua difficoltà ad incuriosirsi, ad
appassionarsi a una realtà che gli
sfuggiva, Uno scarto doveva esserci tra quelli che era abituato a
frequentare all’università di Siena e che magari
dalle periferie venivano e noi, che in periferia ci vivevamo.
Ho pensato anche che noi di Cologno c’eravamo trascinati al
Nord un sostrato di meridionalità
(cattolica? ribellistica?
terrestre? sottoproletaria?) - ho sempre pensato a
Cologno come un guanto rovesciato
del Sud
– per lui
particolarmente opaco. Mi aveva, infatti, colpito in
quell’incontro che Fortini sottolineasse – con un
misto di stupore e delusione - che ci trovava tanto diversi
da «quelli di Piacenza» (dai fondatori di Quaderni
Piacentini, intesi
io). Sono solo mie supposizioni. Ma quanti
miei colleghi di scuola milanesi reagivano con un imbarazzo simile,
sentendo che io abitavo in periferia, come se vivessi in un altro
mondo?
Mi sono chiesto spesso in questi anni se davvero cercassi in Fortini un
maestro, come accennavo interrogativamente nella «Poesia
della crisi lunga». In realtà cercavo un
“compagno”, ma ho avuto, alla prova dei fatti,
soltanto un maestro a distanza55.
Questa distanza fra me e lui s’è sempre mantenuta
e si mantiene in tutti i rapporti che ho con altri
intellettuali. A volte mi dico che in me non
s’è tutta freddata la febbre cooperativa del
’68. Ma perché solo in me? Continuamente constato
che le forme di cooperazione tra intellettuali, nelle quali mi sono
costruito, sono residuali e che l’individualismo è
tornato paradigma di tutto il lavoro intellettuale ed io sono forse
solo uno che si attarda in uno stile che è per lui
solo un’abitudine. Non si tratta solo di egocentrismi,
gelosie, ecc., come pigramente si dice. È crollato un modo
di porre i problemi nella cultura, nella politica e persino nella vita,
al quale Fortini, io e molti altri, pur di diverse generazioni,
facevamo riferimento. E quando mi avvicinai a lui, era già
finita e da tempo anche l’effimera epoca di quello che mi
parve un fertile contrabbando tra università e mondo
esterno56. Sprofondava
sotto i nostri piedi l’intero
tessuto organizzativo e sociale della sinistra, in cui egli
soprattutto si era costruito in un rapporto di odio-amore messo in luce
da Rossanda57
e che un po’ ci ha passato. Si
accrescevano le differenze sociali e quelle interne al ceto
intellettuale che il ’68-‘69 voleva smantellare o
ridurre.
Molte mie difficoltà, dunque, nel rapporto con Fortini ed
altri intellettuali si spiegano all’interno di questo
cambiamento, mi dico. Né potrò mai rimproverargli
alcunché. Ci diede volentieri e generosamente una mano. E
poi – ripeto - c’erano molte ragioni che in quei
suoi ultimi anni di vita legittimarono il suo ritirarsi dai tanti che,
credo, gli si rivolgevano, me compreso. Aveva da economizzare le
proprie forze per i compiti che riteneva essenziali. Aveva lavori
avviati da portare a termine (nell’ultimo quindicennio la sua
produzione è stata intensa58),
vincoli accademici ed
editoriali assorbenti. E poi è giusto chiedersi
realisticamente: chi ero io, chi eravamo noi…
Tuttavia perché negare che la mia riflessione successiva sul
mio rapporto con Fortini è stata segnata da questa mia
umanissima delusione, che punteggia ancora oggi di dubbi il riesame di
quelle vicende? Quel desiderio di cooperazione di un periferico e dei
suoi amici con un intellettuale «universale» (e
universitario) era velleitario? provinciale? fuori tempo? carico di
equivoci sessantottini? O, in sé legittimo,
s’indirizzò a uno scrittore, che per vari motivi
(invecchiamento, impegni, altri interessi, vincoli vari) non poteva
accoglierlo che parzialmente, come fece?
Resta il fatto che, anche dopo la sua morte, la sua figura ha
influenzato le mie riflessioni, le mie scritture, la mia ricerca
poetica successiva, il ripensamento stesso del mio passato, i miei
tentativi di organizzarmi con altri intellettuali in luoghi di ricerca
indipendente dai partiti.
Da una parte la mia memoria dei suoi scritti ha funzionato da bussola e
anche da termometro dell’etica (soprattutto) degli
intellettuali che incontravo. Dall’altra, però,
anche quando mi sono aperto al confronto con posizioni diverse dalle
sue su certi temi fondamentali, non riesco a non valutarle prescindendo
dalle cose dette o scritte da Fortini. Per cavarne una preferenza e
possibilmente una scelta.
Ora che quel filo
del comunismo non brilla più,
s’è inabissato o è ridiventato
“spettro” innominabile, a me, comunque, non basta
rileggere
Fortini o tenermi il Fortini
poeta, anche perché
non penso che il suo esser poeta metta d’accordo
tutti59.
So che non riesco ad accontentarmi di un
comunismo ridotto a valore o fede nell’eguaglianza
e fratellanza degli uomini; e dunque non più
riferibile a un progetto, a un processo che abolisca in
modo verificabile, quindi con un certo grado di
“oggettività”, «lo stato
presente delle cose». Non posso confondere le nuove
ristrutturazioni capitalistiche in atto - obamiane, cinesi, putiniane
(rivoluzioni
dall’alto) - con le
rivoluzioni
dal basso, che
al momento non si vedono e non sono prevedibili. E mi pare che il
comunismo di Fortini, così vicino al cristianesimo, sia
stato eroso assieme al cristianesimo stesso60.
Ma che anche il
comunismo “scientifico” regga poco, come sostiene
Gianfranco La Grassa61.
E sono pure incerto se si debba usare
la parola ‘comunismo’, come sostiene
Badiou62.
(Spero comunque non nelle forme quasi grottesche
della “rifondazione” o della riproposizione fuori
tempo massimo di “comunismi italiani”).
Oggi che l’intellettualità tutta è
diventata più periferica
di quanto io sospettassi negli anni
Ottanta - tutta e non solo quella che viveva o vive negli hinterland o
in provincia - ed è sostituita sulla scena politica dalla
«nuova mediocrazia», ho molti più dubbi
se si possa fondare sugli intellettuali, come tentai negli anni
Ottanta, un possibile progetto o che qualcosa di buono possa venire
dalla coscienza chiara della perifericità63.
Non so
neppure se nell’«epoca del gremito»
(Majorino) e in assenza di critica (o in una sorta di secessione della
critica negli Aventini accademici) la poesia, che pare
ridotta a spia del disagio esistenziale e politico “di
nicchia”, possa ancora essere «promessa
di felicità» e se in Fortini
ci siano spunti per ripensarne un possibile ruolo positivo in questo
nuovo contesto.
In conclusione penso inquietamente che il «proteggete le
nostre verità» vada perseguito in una sorta di
«esodo», come ho detto negli ultimi anni, al di
fuor della sinistra e un po’ a distanza anche da un
certo Fortini più doveristicamente legato a
quell’ottimismo della volontà, che come ha
ricordato Edoarda Masi «gli vietava di riconoscere
la catastrofe»64.
>Carteggio Abate-Fortini
note
1.
Omonimo a quello
di una rubrica del sito
www.poliscritture.it,
dove dal 2006 raccolgo anche testimonianze e contributi di altri
su
Fortini.
2. Non so
neppure se quegli
incontri abbiano lasciato qualche traccia
nelle scritture private inedite di Fortini.
3. Condivido
l’opinione di Edoarda Masi espressa
nella tavola rotonda del 2004 tenutasi a Siena nel decennale della
scomparsa di Fortini: «In realtà svolta e
trasformazione del contesto si sono verificate non nei “dieci
inverni” che ci separano dalla sua [di Fortini] ma nei
quindici-vent’anni precedenti. Accenno solo ai momenti
centrali della svolta: - la repressione violenta e lo strangolamento in
embrione dei movimenti popolari iniziati negli anni settanta e
proseguita negli orribili anni ottanta; - la fine della rivoluzione
cinese sancita formalmente nel 1978; - il monopolio del dominio
politico-militare planetario, concomitante con la maturazione della
crisi strutturale del sistema del capitale; - l’accentuarsi
della violenza in ogni luogo e aspetto e l’accreditamento
dello stato di guerra generalizzata e permanente» (E. Masi,
in Dieci
inverni senza Fortini,
Quodlibet, Macerata 2006, pag.
263).
4.
Credo di aver letto per la prima volta alcune sue poesie
nell’antologia scolastica di Salvatore Gugliemino, Guida al Novecento,
Principato, Milano 1971. E all’inizio del mio insegnamento
nelle scuole superiori fui molto influenzato dalla lettura
dell’antologia firmata da Fortini stesso e Augusto Vegezzi, Gli argomenti umani,
Morano, Napoli 1969.
5. Oltre alla lettura di
vari quotidiani, fui, come tanti, vorace
acquirente e lettore affannato di opuscoli politici, di
riviste (Giovane critica,
Classe e
stato, Classe, Lavoro politico, Nuovo impegno, Montly Review,
ecc.) e di libri di storia.
6. Da
un’intervista rilasciata ad Antonio Benci (10 marzo
2006): «Salerno nel dopoguerra era in mano ai preti e ai
democristiani, affiancati da MSI e monarchici. I professori del mio
liceo erano quasi tutti di destra, tranne quello di filosofia che era
stato collegato a Napoli al circolo di Benedetto Croce ed era
l’unico che a vote s’intratteneva su questioni
politiche, ma internazionali. Giudicava uno sciocco Eisenhower e
paventava un futuro predominio della Cina. Soltanto al ginnasio avevo
avuto l’unico professore di lettere che dicevano socialista;
ma lo ricordo per l’atteggiamento più affabile
verso noi studenti, non per dichiarazioni che suonassero diverse da
quelle cattoliche. Appartenevo a una famiglia di basse origini
contadine da parte di mio padre, arruolatosi giovanissimo nei
carabinieri e ferito durante la Prima guerra mondiale, poi diventato
maresciallo, e nel dopoguerra, per integrare una magra pensione,
costretto a lavorare come supervisore di fiducia in un negozio di
sanitari per l’edilizia. Mia madre veniva da una famiglia di
falegnami ebanisti. Ricamatrice da giovane, trascorse la sua
vita da casalinga. Entrambi i miei genitori avevano fatto solo gli
studi elementari. In famiglia libri, che non fossero di preghiera,
entrarono quando io e mio fratello cominciammo la scuola. Altri ne
compravo io o me li facevo prestare da amici che ne avevano. Frequentai
assiduamente da ragazzo la parrocchia del quartiere. Di politica non si
parlava, ma ricordo che, durante le prime elezioni del dopoguerra, in
casa mia e in quelle dei parenti circolarono le cartoline anticomuniste
raffiguranti la faccia di Garibaldi che, capovolta, mostrava quella di
“Baffone”. Suppongo (non l’ho mai
accertato) che i miei genitori e i parenti votassero per la Democrazia
Cristiana. Mio padre, però, acquistava il giornale. Il primo
che gli vidi in mano, nell’immediato dopoguerra, si chiamava
«Il Risorgimento». Poi
passò a «Il Tempo» e,
stabilmente, a «Il Mattino». Prese poi a
comprare anche «Epoca», «Selezione del
Reader’s Digest» e, molto più tardi,
«L’illustrazione italiana». Al mio primo
voto da maggiorenne (ventun anni allora), nel ’62, scelsi il
Partito Socialista e mi parve di fare un gesto trasgressivo. Fino ai
ventun anni, il tempo in cui vissi a Salerno prima di andarmene a
Milano, lessi i giornali che mio padre portava a casa. Ricordo i
nomi di Augusto Guerriero, collaboratore di
«Epoca», e di Giovanni Ansaldo, direttore de
«Il Mattino» dal 1950. Leggevo i loro articoli.
Trattavano sicuramente di politica. Ma non ricordo nulla di quanto
scrivevano. E li distinguevo poco dagli scrittori che, come Domenico
Rea, apparivano in terza pagina su «Il Mattino».
Ero in una ovatta culturale omogenea, che solo più tardi ho
definito “di destra”. Sia a scuola che
nell’Azione Cattolica, dove rimasi fino ai sedici anni,
macinai quella cultura, che conteneva qua e là anche
venature più popolane ed evangeliche. Il primo evento
storico che davvero mi colpì moltissimo fu la rivolta in
Ungheria del 1956. Ricordo tuttora alcune impressionanti foto
apparse su «Epoca» e il mio ascolto ansioso delle
notizie trasmesse dalla radio. Ma non avevo nessuno con cui ragionarci
sopra. Con i pochi amici del liceo, anch’essi legati
all’Azione Cattolica, si discuteva di questioni religiose, di
ragazze, raramente delle nostre letture e mai di politica. Sempre da
solo m’impratichii della lingua francese, imparandola dai
dischi di un corso popolare della Linguaphone;
e nel 1961, l’anno in cui frequentai Lingue e letterature
straniere all’università di Napoli, presi trenta e
lode al primo esame di francese. Negli ultimi anni di liceo (il
professore di lettere non ci faceva oltrepassare la triade
Carducci-Pascoli-D’Annunzio) e in quell’anno
dell’università, poi interrotta per andarmene a
Milano nel 1962, sempre per conto mio lessi parecchio. Insistendo con
mio padre, m’ero fatto compare a rate i Cinque libri del sapere della
Garzanti. E dal volume dedicato alle letterature trassi spunti per
nuove letture. Molti degli autori che leggevo erano francesi: Mauriac,
Bernanos, Baudelaire, Rimbaud, Proust, Sartre (Il muro).
Un amico, commesso in una libreria, mi prestava poi di straforo dei
libri, che gli riportavo dopo la lettura, curando che non si
sciupassero. Così lessi molti dei primi Oscar Mondadori,
Pavese, Dostoewskij, i volumi della Recherche
di Proust e assaggiai l’Ulisse
di Joyce, appena pubblicato nella Medusa. Su
«Epoca» uscivano nel frattempo i primi inserti a
colori sulla pittura moderna - dagli impressionisti e Cezanne fino a
Braque e Picasso - che mi attrassero molto e, da autodidatta, cominciai
a disegnare e a dipingere.
7.
Dall’intervista rilasciata ad Antonio Benci (10
marzo 2006): «Sono arrivato a Milano nel ’62. Me ne
ero andato da Salerno, interrompendo gli studi (avevo dato gli esami
del primo anno di Lingue e letterature straniere
all’università di Napoli). Assunto come impiegato
generico alla Mottura e Fontana, un’azienda di trasporti, e
poi, per concorso, alla Ripartizione Tributi del Comune di Milano, vi
resistetti circa sei mesi. Poi mi licenziai e stavo per andarmene a
Parigi dove speravo di fare il pittore. Ci rinunciai perché
nel frattempo mi ero legato a una ragazza immigrata da Taranto coi
suoi. Abitava a Cologno Monzese e faceva l’impiegata. Ancora
con l’idea di diventare pittore, mi presentai da privatista
agli esami di maturità artistica e, dopo il diploma,
m’iscrissi all’Accademia di Brera. Nel frattempo la
ragazza era diventata mia moglie e avemmo subito un primo figlio.
Avendo come entrate solo il suo modesto stipendio e non essendo entrato
nella graduatoria degli insegnanti di educazione artistica, mi cercai
un qualsiasi lavoro. Fui assunto come operaio
«notturnista» alla Sip (ora Telecom).
Lì, in un reparto dove numerosi erano gli
studenti-lavoratori, ripresi l’università nel
‘64, laureandomi poi nel ‘70 in lettere moderne ad
indirizzo storico.
8. L'Organizzazione
comunista «Avanguardia Operaia» (AO) fu, assieme a
Lotta Continua (LC) e al Partito di unità proletaria (Pdup),
uno dei maggiori gruppi extraparlamentari degli anni Settanta. Nacque a
Milano nel 1968. Per il nuovo partito, da costruire in alternativa a
quelli definiti “storici” (PCI, PSI) e giudicati
“revisionisti”, s’ispirò alle
teorie di Lenin, correggendone l’idea principale (quella dei
“rivoluzionari di professione”) con
un’ampia apertura
all’”operaismo” (o
“fabbrichismo”) tipico di quegli anni. Accolse
soprattutto le spinte innovative provenienti dai comitati unitari di
base (CUB), sorti in dura competizione con i sindacati nelle grandi e
medie fabbriche di Milano e del suo hinterland, subordinandovi non
senza rigidità quelle altrettanto innovative provenienti dal
movimento degli studenti. «Avanguardia Operaia» fu
ostile alle tesi del «Potere studentesco» come a
quelle dell’«Università
critica», molto diffuse in Germania e, in Italia, soprattutto
nell’università di Trento.
Il mio ingresso in «Avanguardia Operaia»
l’ho così ricostruito sempre
nell’intervista rilasciata ad Antonio Benci (10 marzo 2006):
«Ero studente-lavoratore alla Statale di Milano negli anni
che precedono la nascita del movimento studentesco del ’68.
Mentre davo i miei esami, sul posto di lavoro alla SIP
conobbi un trotzkista dissidente del PCI e cominciai a frequentare le
prime riunioni sindacali e politiche. Per le prime ci si riunivamo alla
SIP o a casa di qualcuno. Per le altre in Via Ausonio, dalle parti di
Sant’Ambrogio, nella sede dove mi pare si stampasse allora
una rivista intitolata «Falce e Martello». Una
volta vi si
affacciò anche Giangiacomo Feltrinelli assieme a una donna
elegantissima, che portava a guinzaglio un levriero. Erano le prime
esperienze di dissidenza dal PCI e di “entrismo”
nel sindacato. Il clima a me parve da carbonari. Ricordo la diffidenza
degli operai sindacalizzati e dei militanti di lungo corso nei miei
confronti. Per loro la condizione dello studente-lavoratore non era
né pesce né carne. I discorsi di quelle riunioni,
fatti in un linguaggio tecnicistico, non mi appassionavano. Ero
interessato alle questioni generali, storiche o teoriche. E fui
sicuramente più attratto dal movimento degli studenti che
scoppiò da lì a poco. La mia simpatia
però ora andava ai fautori del potere
operaio
ora a quelli del potere
studentesco.
Poi, aderii più decisamente al discorso dei CUB di fabbrica
e mi legai alla nascente «Avanguardia Operaia».
Qui, a Cologno, fondai un «gruppo operai-studenti»
e cominciammo a stabilire rapporti con alcuni operai di piccole
fabbriche. Il gruppo nacque in pieno ’68 sotto la spinta del
movimento degli studenti. Nacque così: alcuni operai di una
piccola fabbrica (la SIAE microelettronica), che conoscevano mio
suocero, allora operaio in una fabbrica di plastica, vollero incontrare
degli studenti che stavano partecipando alle occupazioni delle
università. Così nacquero i primi incontri con
operai simpatizzanti. Dato che non capivo quasi nulla di lettura della
busta paga, di salario, di cottimo, feci venire da Milano Luigi Vinci,
uno dei dirigenti del primo nucleo milanese di «Avanguardia
Operai». Con le informazioni che gli operai ci passavano
dall’interno delle fabbrichette scrivemmo i primi volantini
che noi studenti andavamo a distribuire ai cancelli delle loro
fabbriche. Un altro compagno milanese, Roberto Cerasoli - un tipo molto
allegro e rilassato, l’opposto della seriosità
militante dell’epoca – ci tenne invece, nel
sottoscala di un bar, le prime “lezioni” sul Manifesto
di Marx o sul Che fare? di
Lenin. Questi sono stati gli inizi della mia militanza politica. Quella
nei grandi partiti mi è rimasta sempre estranea. Ho aderito
senza fatica al movimento degli studenti (con una parte di me
c’ero dentro davvero). Con più fatica ad
AO. Ho sentito particolarmente l’attrito a volte
drammatico di quei contatti reali tra studenti e operai,
mascherato o solo sublimato dagli slogan ottimistici del ’69
(“operai e studenti uniti nella lotta”). Del
movimento studentesco alla Statale di Milano conservo le immagini del
fervore politico e delle entusiasmanti manifestazioni di piazza. Delle
riunioni con gli operai, dei picchettaggi e volantinaggi davanti alle
fabbriche mi restano immagini di fatica, di diffidenza, di rudi
semplificazioni della comunicazione».
9. Cfr. R. Luperini, La lotta mentale,
Editori Riuniti, Roma 1986.
10. Ne accennai a
una collega di scienze vicina a «il manifesto ». Fu
lei a
parlarmi della «riservatezza» di Fortini, cui
accenno nella lettera del 3 marzo 1978.
11. Dopo la scissione di
«Avanguardia Operaia»
rifiutai di entrare nel Pdup o in «Democrazia
Proletaria», che ne ereditò in parte
l’esperienza.
12. Ero uscito da AO ma non
dalla politica. Fu una scelta
quasi obbligata per molti. Era stata a suo tempo anche di Fortini (Cfr.
Dieci
inverni). Oggi la vedo
definita da Alain Badiou come la «politica senza
partito» (pag 106, Allegoria
n. 59, 2009).
13. La «POESIA
DELLA CRISI LUNGA», lunga davvero
(circa 350 versi), partiva con una domanda angosciosa (che fare a cologno monzese
compagni/ nel duro congelarsi delle speranze?).
Accennavo a scenari cittadini di squallore e di ristrutturazione (dagli scantinati [si
odono] rumori di scalpelli/ pause allarmate, schianti stanchi/
pavimenti immagino disordinati/ per calcinacci/ assenze di mobilio)
ed esprimevo lutto per una storia collettiva finita (lontani dal crepitante
chiacchiericcio di via vetere / bandiera rossa sventolante stinta/ o
penzoloni per quelle piogge mai lugubri/ degli inverni conclusi),
astio per una Milano, prima guardata
con sospetto e
ira/ in centinaia di cortei e ora immobile e
più cinica.
Elencavo poi con insistenza vani tentativi per far sopravvivere i
legami di militanza (ritelefonare
stupidamente/ all’amico all’amica perduti
di vista/ per ricontrollare/ distacchi consumati inaridimenti/ sussulti
di desideri). Di fronte alla
crisi, che faceva ripiombare le
classi in precipitato
distacco/ (sublimazione dei
pensieri di marx)/ nel fenomenico naturale
nell’evoluzionistico broglio),
definivo uno
sputo catarroso il sessantotto
e accennavo all’inaridirsi del pensiero critico (e pensar grigio non per
caso/ in quest’ultimo anno il più ricco/ non per
caso d’attentati),
alla nostalgia per il mondo contadino del Sud (un passato orecchiato
sommerso/ sprofondato assieme alla gente magramente contadina/ con cui
vivemmo/ agri e amari giorni senza ribellioni).
Di fronte al presente (“sì, ma ora?")
della dispersione delle forze sociali proletarie o del
“riflusso” (“hai saputo?
ascoltano
guccini/ s’occupano spendendo quel poco/ di
fotografia/ continuano logoranti riunioni s’imbarcano su navi
tremende! oh iolanda!/ s’iscrivonoamputati al pci!”)
visti nello schifo/ di quotidiani e imposti
amplessi/ con la periferia fra torme di giovani disoccupati/ accanto a
scolorite intelligenze/ nelle latterie della rimasticatura/sulle
sodomizzanti catene di montaggio/ che vomitano vomitano/ e
s’arrestano buie ronfando,
prospettavo
la soluzione dello studio (un vero
ecco lavoro di
talpe) e l’ipotesi
della scelta di Fortini come riferimento intellettuale (“tu dici fortini: per
maestro?”).
14. Ad esempio
lessi la sua raccolta di poesie Una
volta per sempre.
Poesie 1938-1973, Einaudi,
Torino 1978. Alcune di quelle poesie mi suggerirono dei
disegni che ho pubblicato sul sito www.poliscritture.it.
15. Lo ricordo una sera commosso e piangente al Circolo Correnti subito
dopo la morte di Vittorio Sereni, poi al Piccolo Teatro a parlare su
Goethe, alla Sala del Grechetto della Sormani sul libro della Zancan
dedicato a «Il Politecnico» , al Circolo
Scaldasole, al Teatro Parenti per l’Istruttoria
di Peter Weiss e persino in un liceo di Desio, dove tenne una
conferenza su una poesia di Zanzotto.
16. Negli anni Settanta avevo incontrato Piero Del Giudice
davanti alle fabbriche di Sesto S. Giovanni e Cinisello, dove
– militante di «Avanguardia Operaia» io,
di «Lotta Continua» lui - andavamo a distribuire
volantini o a discutere con gli operai. Lo ritrovai poi
all’ITIS di Sesto. S. Giovanni, come collega di
lettere. Dal 1980, anno in cui fu incarcerato, fino al 1985 scambiai
con lui numerose lettere e andai più volte a trovarlo in
vari carceri. Avevamo prima e abbiamo mantenuto poi, dopo la sua
scarcerazione, traiettorie di vita, passioni culturali e
politiche, approcci alla realtà diversi e spesso in
urto. Ma aver partecipato, ciascuno a suo modo, alla storia
sociale e politica milanese, che dal ’68-’69 aveva
per quasi un quindicennio dinamizzato settori operai, studenteschi e
intellettuali “a sinistra del PCI”, spiega a
sufficienza, secondo me, il persistere (mai facile e spesso teso) di un
confronto-duello tra noi anche dopo la sua incarcerazione.
Condividevo, infatti, sia il garantismo costituzionale, che in quegli
anni fu di pochissimi intellettuali (tra cui Fortini stesso,
Rossanda, Ferrajoli) sia una visione
anticapitalista di ascendenza marxiana, nella quale
non è contemplato il rifiuto morale ed assoluto della
violenza. Le coraggiose prese di posizione di Rossanda e Fortini, in
particolare, furono allora per me un saldo ancoraggio etico e politico
contro ogni forma di pentitismo. E, scegliendo da quel maggio 1980 di
scrivere lettere a Del Giudice detenuto in un carcere
“speciale” - per me una forma elementare
di solidarietà, che molti colleghi
“democratici” della mia scuola giudicarono
inopportuna o sospetta – sapevo che avrei dovuto, come ad una
perquisizione, castigare la mia libertà di pensiero e
controllare il confronto con lui, che era stato più libero
in luoghi specifici e negli anni delle lotte. Il ricatto sottinteso da
parte del giudice di sorveglianza era evidente: soltanto a
“pie donne” e “san giovanni”
era concesso scrivere o visitare un detenuto di un carcere
“speciale”. Sapevamo entrambi che la nostra
corrispondenza non aveva franchigia, al di là della
distrazione o di una ipotetica lungimiranza degli addetti alla censura.
Le nostre comunicazioni, perciò, furono in ogni istante
ancora più di prima pressate da fantasmi. Eppure, malgrado
condizionamenti e diversità di carattere, continuammo per
cinque anni il duello che conducevamo da “liberi”.
E affrontammo, sotto l’urto di stimoli esterni, i temi di
quegli anni: la scuola, il “terrorismo”, il
carcere, le trasformazioni della Sinistra, la memoria, le ipotesi di
soluzione politica per i detenuti del 7 aprile e per i
“lottarmatisti”, le spinte internazionali verso la
guerra, il mercato dell’eroina, i giovani e – non
ultimo – il “fare poesia”.
Sapevo pure che per gli altri ero comunque uno che aveva rapporti con
un “terrorista”. Poiché, conclusa
l’esperienza di «Avanguardia operaia»,
non avevo scelto “prudentemente” di entrare in
Democrazia Proletaria o di passare al PCI, attorno mi crebbe il vuoto
sociale, simile per alcuni aspetti a quello di Del Giudice nel carcere
“speciale”. In quei mesi, se evocavo ad
amici o conoscenti la sua condizione e tentavo di farli riflettere
almeno sugli “eccessi” della «politica di
emergenza», mi accorgevo subito che non mi seguivano. Avevano
incapsulato l’immagine di Del Giudice in un
“allora” astorico e psicologico- Richiamavano sue
scortesie o crudezze di espressioni o modi aggressivi, che, secondo
loro, facevano già prima presagire un
“destino” o convalidavano in parte le
accuse formulate dai giudici contro di lui. A nulla valeva
far notare che ora era un “altro”, un carcerato,
uno sconfitto politico. In quegli anni erano già svaniti i
criteri di giudizio comuni ai molti che avevano masticato politica fino
al 1977-‘78. E senza più l’argine di
ragionamenti politici, le antipatie personali e i sospetti
predominavano. Avanzava quel processo di corruzione della cultura
democratica che oggi s’è pericolosamente
aggravato.
17. In Italia i carceri “speciali”, sul modello di
quelli nella Germania Federale, nacquero nel ’77. Lo Stato
scelse di isolare i prigionieri politici e di limitare i loro contatti
con i detenuti comuni. Dapprima furono realizzate «sezioni
speciali» all’interno dei carceri normali. Poi essi
vennero concepiti ex novo per garantire il massimo controllo
dei detenuti. Uno di tali carceri, quello dell’Asinara, venne
semidistrutto nel 1979 durante una rivolta dei prigionieri e poi
chiuso. Nei carceri “speciali” veniva applicato
l’art.90, che prevedeva colloqui con i vetri, isolamento,
riduzione delle ore d’aria, ecc.
18. Cfr. F. Fortini, Note per una
falsa guerra
civile (4 sett. 1977), in Disobbedienze
I,
manifestolibri, Roma 1996.
19. Lo testimoniano oggi i suoi interventi in Insistenze
(Garzanti, Milano 1985) e su «il manifesto»,
raccolti poi in Disobbedienze
I, II.
Sulla lucidità politica e l’acutezza antropologica
di Fortini nell’esaminare i fenomeni distruttivi e
autodistruttivi di quegli anni è ritornato senza sbandamenti
E. Zinato: «Qualche anno dopo, la visita ai detenuti nelle
carceri speciali convincerà Fortini che, proprio come per
gli assai incerti “suicidi” di Stammhein:
«Fra i giovani
della
lotta armata c’è stato davvero il peggio e il
meglio di quella generazione».
(F. Fortini, Extrema ratio,
Garzanti, Milano 1990, p.74).
Il
“meglio” e il “peggio”,
opposti e speculari: c’è di che far saltare i
nervi a quanti in quegli stessi anni predicavano, anche per via
giudiziaria, la necessità di stare da una sola parte, con
conseguente accusa di “fiancheggiamento”. Per
Fortini, tuttavia, la questione è solo in parte legata
all’attualità e all’immediatezza
politica: coinvolge invece più generali questioni
antropologiche e contrapposte visioni del mondo. L’intero
ceto politico e intellettuale italiano era colpevole a suo avviso di
aver rimosso la dimensione tragica dei conflitti, dimensione ben
presente alla tradizione cattolica grazie al dogma della natura umana
vulnerata dal peccato, ma non ai laici e progressisti». (E.
Zinato,
L’«Angue
Nemico»
in
Dieci
inverni senza Fortini, cit., pp.123-124).
Non
trovo, comunque, altri scrittori italiani che abbiano
detto con eguale lucidità politica cose come
queste:«una eguale infamia e idiozia [Fortini si riferisce ad
alcuni falsi maestri intellettuali degli anni Trenta ha colpito nella
seconda metà degli anni Settanta la quasi
totalità del ceto politico della sinistra italiana
rendendolo incapace di valutare che fra le duecento o trecentomila
persone che in Italia hanno simpatizzato con i terroristi
c’erano coloro che avrebbero potuto salvare il nostro paese
dai servizi segreti, dalla mafia e dalla droga o dalla subordinazione
al “regime delle multinazionali”; e di proposito
riprendo questa locuzione, per quindici anni derisa da tutta la
opinione come specimine del “delirante” gergo dei
terroristi; proprio perché fra quelle che conosco
è la meno distante dal vero» (F. Fortini, Extrema ratio
, cit., p.74).
20.
In una lettera
del 13.10.1981 Del Giudice mi diceva di aver scritto contemporaneamente
a me e a Fortini sullo stimolo di un brano di Fortini in occasione del
1° anniversario della strage di Bologna ( apparso su
«il manifesto» del 29 luglio 1981 e ora a
pag. 223 di F. Fortini, Disobbedienze
I, cit.), che io gli avevo
ricopiato in una mia del 30 luglio 1981.
21.
Confrontandola con una recensione del libro
dell’anarchico Pietro Valpreda scritta da Fortini nel 1974,
ho notato quanto la sua passione politica di allora fosse diventata
nella lettera a Del Giudice mestizia raggelata. È la misura
del mutamento tremendo che ci ha travolto e che nel 1974 era appena
agli inizi. Allora Fortini si faceva difensore della
«tradizione libertaria e antiautoritaria» e persino
dell’«immediatezza», pur ricordando di
aver ammonito i giovani che «l’immediatezza
è un sogno e che bisogna piegarsi alla mediazione se non si
vuole il compromesso». (Cfr. Questioni
di frontiera,
p.41, Einaudi, Torino 1977).
22.
Il sindaco, Valentino Ballabio del PCI, apparve
all’inizio per un rapido e imbarazzato saluto. E nessuno dei
militanti o iscritti a quei partiti si affacciò nella sala
dove si tenne la presentazione.
23.
Ho intenzione di riferire nei dettagli di questo
“ripiegamento” nell’edizione nel
mio carteggio con Piero Del Giudice in preparazione.
24.
Pietro Maria Walter Greco, conosciuto da tutti come “Pedro”,
di
origini calabresi e attivo nelle lotte sociali, latitante e
ricercato venne ucciso dalla polizia a Trieste il 9
marzo 1985 in circostanze sospette.
25.
Nel gennaio 1985 il socialista Gianni De Michelis, allora ministro
del Lavoro, s’era intrattenuto in conversazione con
Oreste Scalzone, allora latitante a Parigi. Sandro Pertini, presidente
della repubblica, aveva scritto una lettera a Craxi sul caso
chiedendo che De Michelis rassegnasse le dimissioni.
26.
Berto Barbani, pseudonimo di Roberto Tiberio Barbarani (Verona, 3
dicembre 1872 – Verona, 27 gennaio 1945), è stato
un poeta italiano e un importante poeta dialettale veronese.
27.
Francesco Maisto è stato giudice di sorveglianza a San
Vittore proprio negli anni Ottanta, definiti dalla stampa “di
fuoco” perché le
BR avevano aperto il «fronte delle carceri» e
cominciava il fenomeno della dissociazione. Sostenne la legge Gozzini.
28.
L’episodio, con le riflessioni di Fortini, si legge ora
in Extrema
ratio, cit., pagg. 71-82.
29.
Della rivista uscirono 8 numeri tra l’aprile 1986 e il
giugno 1990. La redazione era composta da E. Abate, R. Fabbri, R.
Grossi, M. Guerra e R. Mapelli, tutti allora operanti a Cologno
Monzese. Il termine ‘samizdat’ era quello
degli opuscoli della dissidenza in Urss ed era direttamente ispirato a
un brano di Fortini:
«Gente conosco che ha vissuto ad occhi aperti gli ultimi
quattro decenni e si è decisa a scrivere e, ove possibile, a
comunicare non già un’autobiografia ma un
riassunto, un sommario di quel che crede o ha sperimentato, per
difendere, con se stessi, quelli che non possono farlo. Non so se
coloro che verranno (o sono già venuti) avranno il tempo di
occuparsene; ma è probabile che saranno questi samizdat
disarmati e estremi a dire una verità altra o maggiore su
quei decenni di quanto sia nei saggi, negli articoli o poesie o
romanzi. Col coltello alla gola, le parole possono in qualche caso
farsi meno elusive o illudersi di esserlo» (F. Fortini, Insistenze,
cit., pag. 234).
L’idea
di una “rete comunicativa critica di
intellettuali periferici” da organizzare attorno a una
rivista me la rimuginavo dal 1984 ed era collegata alla mia esperienza
d’insegnante. La rivista era letteralmente fatta in casa,
impaginata con la lavagna luminosa e distribuita in modi del tutto
artigianali fra amici e conoscenti ai quali riuscivamo ad arrivare. I
primi tre numeri, che avevo fatto avere a Fortini, avevano come
sottotitolo «materiali di lavoro per intellettuali
periferici».
30.
In «Laboratorio Samizdat», maggio 1986.
31.
«L’intervento di Fortini […] ha
concluso la prima giornata con un esplicito richiamo al pessimismo
cristiano e marxista di Simone Weil e Ernst Bloch, considerato
necessario antidoto all’attuale ripresa di ottimismo
positivista e scientista» («il manifesto», 25 settembre
1986)
32.
Nella testimonianza di uno dei redattori d’allora il
discorso di Fortini fu così riassunto:
«“Dovete unire
Cologno
al mondo” ci disse Fortini una sera del 1986. Con la
disposizione d’animo di un emozionato ammiratore avevo
accolto l’invito di Ennio [Abate] e di altri ad andare a
trovarlo a casa sua. Un gruppo di periferia che cercava risposte e una
guida. […] A noi che portavamo il nostro progetto
“periferico”, contro i “centri”
politici e culturali, Fortini ricordava la forza di uno sguardo
unitario e totale, che partisse dal cortile di casa per unirlo a tutto
il villaggio» (Roberto Fabbri in “Se tu vorrai
sapere…” Testimonainze per Franco Fortini,
Comune di Cologno Monzese, dicembre 1996).
33.
Erano forse questi «certi aspetti volutamente
premoderni» di Fortini che Tito Perlini ha ricordato? (Cfr. Dieci inverni senza
Fortini, cit., p. 271)
34.
Antonio Negri, Lenta ginestra.
Saggio
sull’ontologia di Giacomo Leopardi,
Sugarco, Milano 1987.
35.
Cfr. 28 dicembre 1987: Abate a Fortini
36.
Devo precisare che, comunque, la raccolta inviata a Siena
aveva sì lo stesso titolo della bozza che gli avevo mandato
nel 1987, ma era molto stringata e accoglieva in sostanza i
suggerimenti di Fortini.
37. L’Associazione operò a Cologno Monzese dal
1989 al 1999. Tra i temi in programma: crisi del marxismo,
trasformazioni del lavoro, nuova immigrazione, memoria storica,
ecologia della lettura. Tra i relatori ai «seminari
di studio»: Giancarlo Majorino, Sergio Bologna, Costanzo
Preve, Marco D’Eramo, Pietro Andujar, Pier Paolo Poggio ed
altri. L’associazione, oltre ai seminari, promosse nel 1991 un coordinamento
multietnico a Cologno Monzese,
che indusse il Comune ad istituire il primo Corso d’italiano
per stranieri; e, nel 1995, avviò un gruppo di ricerca Per una storia
metropolitana di Cologno Monzese.
38. Relazione poi
trascritta, riveduta dall’autore e pubblicata col titolo Contro lo snobismo di
massa prima in «Laboratorio Samizdat»,
n.7, novembre 1989,
e poi in Un
dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994,
Bollati Boringhieri, Torino 2003.)
39. Con relazioni
di partecipanti all’associazione.
In ordine di svolgimento: D. Salzarulo, Composita solvantur;
E. Abate, Il
ladro di ciliegie; L.
Ferrieri, Fortini
leggere e scrivere; A. Meani,
Questo
muro; M. Guerra, Extrema ratio;
C. Carlotta e R. Fabbri, Fortini
autore di testi
per canzoni; E. Partesana, Verifica
dei poteri
). Gli incontri furono conclusi il 31 maggio 1995 con una
relazione di R. Luperini sulla figura di Fortini.
40.
Con testimonianze su di lui di: E. Abate, L. Amodio, R. Birolli, S.
Bologna, G. Bouchard, L. Calvi, P. Cataldi, I. Della Mea, L. Della Mea,
A. De Lotto, A. Grazia D’Oria, R. Fabbri, F. Gianoli
Grandinetti, E. Grandinetti, M. Guerra, U. Lacatena, L. Lenzini, F.
Leonetti, R. Luperini, C. Preve, F. Romanò, D.
Salzarulo, F. Sarcinelli, G. Stocchi, P. Zamboni, D. Zazzi.
41.
È il caso di «Poliscritture»
(rivista cartacea + sito:www.poliscritture.it) avviata nel 2005 e
ancora sensibile ad echi fortiniani.
42.
Sarà Altre ragioni.
43.
Eccola nella versione poi rielaborata: Fuori dal presepe
(A Franco Fortini): Lui conclude/su estreme ragioni.//E noi in questa
desolata/Betlemme del pensiero/non più ansimanti/per
decorarla/smorziamo/il suo dire tonante/i rantoli sublimi/dei
grandi morti/che ci affida/ricontrolliamo/i contrassegni/ai
monumenti/da salvare.//Per mondare/le nostre riconoscibili/anime di
briganti/chiazzate/di umile marcio/allenate a riverenze/solitarie/ma in
sogno/prossime ai potenti?// Tremanti nelle
conclusioni/provvediamo alla sua sostituzione/eretici della sua stessa
eresia. //Per non riflettere/il fulgore falso del nemico/stiliamo
capitoletti abbreviati/di un futuro vangelo.
44.
Ritrovo il
problema del rapporto coi “padri” e/o coi
“fratelli maggiori” anche in Tito Perlini:
«non ho mirato a trovarmi in mezzo a dei venerabili padri ma
ho puntato molto sui fratelli maggiori, quelli più grandi di
me che sentivo più bravi» (Cfr. Dieci inverni senza
Fortini, cit., pag 292).
45.
Il rapporto Montaldi-Fortini m’interessa particolarmente:
per aver conosciuto entrambi e per qualche parziale analogia
che mi pare di poter stabilire con il rapporto tra me e Fortini.
L’avvicinamento tra i due avvenne attorno al ’55
per iniziativa di Montaldi, che vedeva nell’esperienza de
«Il Politecnico» un modello per
sé e i giovani di Cremona raccoltisi attorno a lui. Ma dopo
un breve carteggio, si concluse bruscamente nel ’63, con uno
sfogo risentito di Montaldi nei confronti di Fortini, rimproverato per
la sua disattenzione verso i bollettini del Gruppo di
Unità proletaria
cremonese: «Non ci hai mai rivolto una critica, non ci hai
mai detto che avevi qualcosa da dare, da scrivere, nemmeno
un’indicazione sugli argomenti da trattare, da sviluppare,
non un indirizzo cui mandarlo…» (Lettera di
Montaldi del 9 marzo 1963 in Archivio del Centro Studi F. Fortini).
L’atteggiamento di partenza di Fortini verso Montaldi e il
suo gruppo è improntato a una cauta diffidenza e si desume
da una lettera del 1955: «I suoi
“entusiasmi” mi attraggono e sconcertano a un
tempo; c’è una dose di confusione. Mi par di
capire chi siate: le definizioni sono ingannevoli, ma l0odore di zolfo
del vostro gauchisme
non inganna. Le carte sono rimescolate. Io non sono una guida; appena
forse uno stimolo. Al di là dei suoi eventuali errori
personali, non sarà inutile vedersi. Mi scriva e venga a
Milano». (in Franco Fortini, Un
giorno o
l’altro,
pag. 161,
Quodilibet, Macerata 2006).
46.
Problema che tornerà ossessivamente anche nel 1986
nell’incontro della redazione di «Laboratorio
Samizdat» con Fortini e Edoarda Masi e in altri miei
tentativi di autorganizzazione.
47.
« Penso che ci voglia una convergenza, una
reciprocità di scambi, affinché i più
prossimi al “centro” avanzino nel loro
processo di – diciamo – de-cooptazione e
quelli, come noi, buttati nelle periferie non deperiscano in micro
lotte crepuscolari.» (Lettera del 12 giugno 1989).
48.
L’articolo apparve sul n. 34 di «Quaderni
piacentini» proprio nel maggio 1968.
49.
Non quello credo dell’«individualismo piccolo
borghese» colto da Pasolini e che anche Edoarda
Masi vede oggi come «seme piccolo borghese, anticomunista in toto,
che covava sotto la protesta» (Cfr. Dieci iverni senza Fortini,
cit., p. 269), ma
della rivolta
aperta al futuro.
50. Solo dopo la morte di Fortini ho riflettuto di più su
questa sorta di “impermeabilità”
dell’io di Fortini. E devo il riconoscimento
dell’importanza di quest’aspetto
all’incontro con Michele Ranchetti, che giudico un vero
“fratello antagonista” di Fortini. Del
suo sguardo da studioso di Freud oltre che di cattolico sui generis,
mi ero accorto nella prima commemorazione senese della morte di Fortini
nel dicembre 1995, quando fui colpito da quella sua affermazione che in
Fortini ci fosse «una fragilità di fondo
nell’ambito degli affetti». Tesi che Ranchetti ha
riconfermato nel 2004, quando scrisse di «una certa
resistenza [di Fortini] che si rivela nei suoi diari dove non
vi è quasi traccia di una riflessione che non abbia note di
conferma storica o bibliografica, che sia senza testo a fronte, che
attesti un’emozione non mediata da un’eccezionale
cultura […] Vi è nei diari, ma anche nelle
lettere, un accanimento critico che non si apre mai o quasi mai ad
un’esclamazione libera dell’io che appare ritroso a
scoprirsi, ad esporsi ed è in gran parte così
anche della persona, che escludeva ogni confidenza non destinata ad un
fine» (Cfr. Dieci inverni senza
Fortini, cit., pag. 274). Ho
iniziato a riflettere sul rapporto Fortini-Ranchetti in alcune lettere
che scrissi nel 2002 allo stesso Ranchetti. Spero di proseguire.
51.
Mi limito a dire che ho rimaneggiato quella raccolta, smembrando la
struttura tripartita “progressiva” e lavorato ad un
approfondimento delle sue «diverse direzioni».
Finora ho pubblicato Salernitudine
(Ripostes, Salerno 2003) e Prof Samidat (Cepollaro edizione 2006).
52.
È una sottolineatura che ritrovo costantemente in tutti
i miei rapporti con gli intellettuali che ho conosciuto più
da vicino. Può parere antipatica e non mi va di accentuarla
indebitamente certi scarti di grado esistenti tra noi, ma hanno il loro
peso. E del resto fu lo stesso Fortini a parlare spesso di
intellettuali «alti» e «bassi».
Io mi batto per tenerli presenti come problema nel contesto di problemi
sicuramente più importanti, non per isolarli e
ingigantirli. Nessuno ha voglia di ridurre la lotta
tra le classi allo scontro tra intellettuali bassi o alti.
53.
«La vita quotidiana degli uomini ha un’estrema
importanza nella riproduzione della totalità proprio
perché, da un lato, si hanno CONTINUE CORRENTI CHE ARRIVANO
FINO ALLE PERIFERIE,le coinvolgono nei tentativi di risolvere i grandi
problemi della società, vi suscitano reazioni;
dall’altro lato, tali reazioni non soltanto RIFLUISCONO VERSO
IL CENTRO, verso l’intera società, ma al medesimo
tempo rendono operanti, per questa via, “VERSO
L’ALTO“ quei particolari problemi che occupano le
comunità locali minori, esigendo delle prese di posizione
nei loro confronti… TALE CORRENTE RECIPROCA di prese di
posizione a noi sembra il complesso problematico più
importante della vita quotidiana. Intorno all’INCIDENZA DEL
CENTRO SULLE PERIFERIE si hanno qua e là talune ricerche(vi
sono molte ricerche sul modo in cui taluni beni di consumo
“scendono“, cioè sul modo in cui operano
dall’”alto” verso il
“basso“). Del tutto inesplorato, per contro,
è rimasto il movimento opposto, perché
l’aristocraticismo dottorale della gente coltivata inclina a
considerare irrilevanti tali effetti, a ritenere che tutto quanto viene
pensato, sentito, vissuto, ecc. in “basso“
può essere solamente un prodotto di impulsi provenienti
dall’alto» (G. Lukács, Ontologia
dell’essere sociale,
Editori Riuniti , Roma 1981)
54.
Ad es. nel libro di M. Ilardi, E. Scandurra (a cura di) Ricominciamo dalle
periferie. Perché la sinistra ha perso
Roma, manifestolibri,
Roma 2009.
55.
So ambivalente questa definizione. Psicologicamente segnala
rispetto e sospetto, reazioni abbastanza consuete (e a volte
stereotipate) nei confronti di Fortini. Certo, ho provato
grande rispetto per lui. L’ho sentito
un’autorità vera, non di cartapesta, un
consapevole magister.
Mai ho dubitato dell’ampiezza e del vigore della sua cultura
o della forza morale (cristiana e comunista) della sua partecipazione
alla vita pubblica. E il sospetto, che intendo nella forma
intellettualmente nobile, nel mio caso nasceva
(orgogliosamente?) dal riconoscermi pienamente
«intellettuale massa», nano, se si vuole, di fronte
a un gigante. Quando confronto esperienza e cultura mie con le sue, la
cosa mi pare assodata. E tuttavia non me la sono mai sentita di
sorvolare sbrigativamente su tale differenza salendo – come
suol dirsi – sulle sue spalle e
guardando il mondo solo da quella sua altezza. Mi è stato
sempre chiaro che io dovevo agire ed operare rasoterra e
definitivamente in periferia. E da questa collocazione per me stabile
(persino negli “anni formidabili” del
’68-’69, quando il rifiuto della Tradizione ebbe un
segno ribellistico e sovversivo fortissimo) ho sentito con
più acutezza l’esaurirsi della Tradizione in cui
Fortini era cresciuto.
56. Vi ho accennato in Critici senza mestiere?
Meglio se contrabbandieri su www.poliscritture.it
e www.ospiteingrato.org
57.
Cfr. R. Rossanda, Uno sperato tutto
di
ragione in F. Fortini, Saggi
ed epigrammi,
cit.
58.
Basti scorrere le notizie sul periodo che va da
1981-1983 al 1990-1994 nella Cronologia
di Luca Lenzini in F. Fortini Saggi
ed epigrammi,
cit.
59.
La posizione espressa da Perlini mi sembra oltremodo pluralista e
iper-relativistica: «una sorta di prodigiosa unità
che presiedeva a tutte le sue variegate e svariate attività
ma che tuttavia non impedisce che poi si possa considerare di
più il Fortini che volle essere militante politico o il
Fortini intellettuale che diede vita a una produzione saggistica tra le
più straordinarie che ci siano in Italia, paese poco incline
in genere all’arte saggistica, infine se si voglia
concentrare l’attenzione sulla figura del poeta che
è quella determinante e fondamentale che lega insieme tutte
le altre» (Cfr. Dieci inverni
senza
Fortini, p. 270). La figura
di poeta è determinante e fondamentale nella
personalità di Fortini, ma non può tenere insieme
tutte le altre. Una poesia fatta da un cristiano-comunista
non sarà mai solo poesia (in astratto).
Trascenderà la propria posizione ideologica; ed ammetto
che questa sia “secondaria” al momento
della valutazione estetica. Ma la poesia non è esclusivo
campo degli studiosi di estetica. Riportata in mezzo a noi, ai nostri
conflitti, la poesia di Fortini o di Dante o di un altro poeta,
mostrerà sempre anche le sue radici, la sua età,
la sua diversità.
60.
Rimando a Ranchetti, Non
c’è più religione,
Garzanti , Milano 2003.
61.
È la tesi di G. La Grassa: «Sul comunismo
stendiamo momentaneamente
(una fase storica) il silenzio; perché parlarne senza
analisi – e senza nuove categorie d’analisi
– è da sciocchi o da mascalzoni; significa
produrre idee fantasmagoriche della “novella
società”, che non hanno una qualsiasi
possibilità di convincere se non pochi
dissennati» (dal sito www.ripensaremarx.it).
62.
Sovvertire
la chiusura del presente. Alain
Badiou.
(Intervista a cura di Livio
Boni e Andrea Cavazzini), in «Allegoria», anni XXI, terza
serie, n. 59, gennaio/giugno 2009, Palumbo editore, Palermo
2009).
63.
Specie se il termine ‘intellettuali’
rimanda ancora ad una categoria astratta, idealistica e in fondo
riguardante un’élite,
«un ceto separato, sostanzialmente una somma di grandi
individualità» (Bologna), come risulta dal
discorso recente di Asor Rosa ne Il
grande silenzio
Intervista sugli intellettuali,
Laterza, Roma-Bari 2010.
64. Masi:
«l’ottimismo della volontà gli vietava
di riconoscere la catastrofe (…) il suo discorso si fa
sempre più “a futura memoria” e il tono
dei suoi versi, doloroso, diventa più cupo negli ultimi
anni» (Cfr. Dieci inverni senza
Fortini, cit.,
p.263).
A tratti tuttavia,
se in quella serata del 1983 a Cologno rileggiamo affermazioni come
questa: «Quello che è certo è che non
bisogna lasciare pietra su pietra di quello che è stato lo
svolgimento ideologico (Badate, dico ideologico, non politico.
Non
strettamente politico, ma ideologico) della lotta della sinistra in
Italia fino almeno agli anni ’60; alla metà degli
anni ‘60 e anche oltre». Oppure come la seguente:
« Non vediamo, non vogliamo vedere fino in fondo
l’ampiezza del disastro. Ebbene, è solo se noi
tocchiamo veramente e realmente il fondo del disastro; è
solo se noi riusciamo davvero con un atto, direi, più di
volontà che d’intelletto (a raggiungere) una
visione dei rapporti internazionali e di come questi rapporti
internazionali si riflettono nella nostra vita quotidiana, qui nel
nostro Paese; solo in questo caso, solo starei per dire paradossalmente
con la disperazione analoga a quella che ha massacrato una generazione
a colpi di prigione, di terrorismo e di droga; solo in queste
condizioni possiamo legittimamente sperare di cominciare un nuovo
discorso».
>Carteggio Abate-Fortini
[5 marzo 2010]